Il Regio sottomarino Sandokan
di Enrico Cernuschi
Storia travagliata e inedita di un progetto segretissimo concluso in modo anomalo
La “Rivista Militare” pubblicò nel numero di agosto –settembre 2002, un supplemento a firma di chi scrive, dedicato allo sviluppo dei sottomarini in Italia durante la prima metà del Novecento. Nel corso delle ricerche per la stesura di quel testo, dal confronto delle varie fonti incrociate, maturammo la ragionevole certezza che tra il 1935 ed il 1943, furono eseguiti tutta una serie di progetti di sommergibile dotato di un motore unico a circuito chiuso. Questa intensa attività di progettazione culminò nel 1941 con l’ordinazione da parte della Regia Marina, di un prototipo al Silurificio Italiano di Baia, presso Pozzuoli (Napoli).
La segretezza dell’intero programma e le vicende successive legate all’armistizio dell’8 dicembre 1943 sono probabilmente all’origine del fatto che presso l’archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, manca qualsiasi elemento sulla semplice esistenza dell’unità in esame. Essa non è nemmeno compresa in alcun ruolo o repertorio del Regio Naviglio e qualche vaga notizia di fonte italiana era finora basata su poche e contraddittorie testimonianze. Ciò aveva fatto si che la nostra indagine in proposito rimanesse decisamente incompiuta.
Abbiamo in seguito rinvenuto, presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, a Washington, una cospicua documentazione tecnica navale di origine italiana e risalente al periodo bellico. La scoperta ha permesso di ricostruire compiutamente una fase della evoluzione del pensiero navale subaqueo della Regia Marina. Da tali carte, inoltre sono emersi alcuni aspetti finora non conosciuti riguardanti quel tormentato periodo storico per il nostro Paese e le nostre Forze Armate.
Sempre più veloce
Con buona pace di una certa storiografia di maniera, anche recente, i vertici della Regia Marina erano perfettamente consci, già all’inizio degli anni Trenta, dei limiti della componente subaquea della rinnovata flotta italiana.
La sconfitta degli U-Boote tedeschi duante la fase finale della Grande Guerra a causa del traffico avversario scortato e la mancata evoluzione tecnologica del battello subacqueo nel periodo tra le due guerre, rimasto legato ai limiti di velocità (5-6 nodi al massimo) e autonomia in immersione assicurati dal doppio apparato motore diesel ed elettrico, avevano infatti indotto tutti i commentatori e i teorici a credere, sin dal 1919, che un nuovo conflitto navale fosse destinato a ricalcare le orme di quello precedente.
Anche la componente subacquea italiana, pertanto, basata su una cinquantina di unità moderne, in maggioranza «mediterranee», avrebbe dovuto rassegnarsi a subire dopo una prima fase iniziale favorita possibilmente dalla sorpresa, l’iniziativa antisom avversaria.
La necessità di ovviare a questo stato di cose, soprattutto in vista dell’inedito confronto con la Gran Bretagna, spinse Pericle Ferretti, professore di meccanica applicata alle macchine nella Facoltà d’ingegneria di Napoli e già padre dello schnorchel italiano (2), a proporre la realizzazione di un sommergibile tascabile, detto «d’assalto». Era un battello destinato a operare a grande velocità in immersione in virtù di un innovativo motore unico a circuito chiuso.
Questo motore, progettato dallo stesso Ferretti, era un «Asso» Isotta Fraschini aeronautico da 350 hp a quattro tempi, opportunamente modificato per impiegare, in luogo della benzina, una miscela di alcool al 97%. Esso avrebbe utilizzato come comburente, in immersione, ossigeno allo stato liquido conservato in bombole e in superficie, aria atmosferica.
L’alcool era stato scelto principalmente per la sua solubilità in acqua salata, ma anche perché in tal modo i gas di scarico potevano essere depurati di qualsiasi traccia incombusta residua di combustibile. Le prove condotte nel 1936 al banco e in una vasca speciale, realizzata appositamente a Napoli quell’anno, confermarono la validità, in linea teorica, della soluzione proposta, ma misero in luce anche la delicatezza dell’insieme e la pratica impossibilità di arrivare, mediante quel sistema, alla realizzazione di un battello sottomarino d’altura, data la modesta potenza, non suscettibile di sviluppi, prevista dallo schema adottato.
Gli interessati succedutisi in quel periodo ai vertici della costituenda Squadra Sommergibili, avvertirono la necessità di passare quanto prima possibile dal sommergibile al sottomarino, spingendo lo Stato Maggiore della Marina a sollecitare, nella seconda metà del 1936, gli uffici tecnici dei tre cantieri nazionali specializzati in unità subacquee a presentare ciascuno un proprio progetto di massima per la realizzazione di una classe di veri e propri elektro-boote ante litteram. Era richiesto che detti battelli fossero in grado di raggiungere, grazie ad un apparato motore elettrico particolarmente sviluppato e di potenza maggiore di quello diesel, uno spunto di velocità in immersione di circa 15 nodi.
Sulla base delle informazioni tecniche raccolte, in quel periodo dall’allora addetto navale a Berlino, Capitano di Vascello Raffaele De Courten, l’iniziativa sembrò procedere piuttosto speditamente, quanto meno sui tavoli dei disegnatori. Nel giro di pochi mesi si passò dall’idea – mutuata originariamente dalla proposta di Ferretti del 1935 – di un piccolo battello d’assalto del dislocamento di circa 13 t, a quella di un vero e proprio sommergibile elettrico d’altura di 100 t di dislocamento in superficie e dotato anche di un piccolo motore diesel ausiliario.
Il progetto dell’unità, proposto inizialmente dal capitano di fregata Moschini e dal capitano (GN) Viola, venne ulteriormente elaborato, negli anni successivi, dai CRDA di Monfalcone, che arrivarono a definire, per il 1939, una variante potenziata di questo nuovo tipo di unità subacquea, dotata di due tubi lanciasiluri prodieri da 450 mm e caratterizzata, tra l’altro, da due eliche controrotanti (3).
La dimostrata incapacità, da parte dell’industria nazionale, di realizzare le nuove batterie alleggerite necessarie per i battelli subacquei di questo tipo (batterie realizzate in Germania nel 1938, senza però permetterne l’esportazione) (4) compromise l’intero programma.
La situazione fu complicata in sede politica dalla decisione presa nel marzo del 1939, di concentrare gli sforzi e le risorse di uomini e mezzi disponibili, per il raggiungimento, nell’ambito della Squadra Sommergibili, del maggior grado di efficienza possibile dei battelli convenzionali. Il provvedimento venne preso in vista dell’atteso confronto con la Gran Bretagna e la Francia, atteso nelle acque dell’Egeo e più in generale del Mediterraneo.
La somma di queste ragioni tecnologiche e strategiche, combinata con la scarsa volontà di collaborazione dimostrata dal «quasi alleato» tedesco, determinò pertanto, la pratica sospensione della prima stagione di studi ed esperienze mirate alla realizzazione di un piccolo sottomarino italiano.
Sviluppi ulteriori
L’avvento nel dicembre del 1940 dell’ammiraglio Arturo Riccardi, nella doppia carica di Capo di Stato Maggiore e di sottosegretario alla Marina e la sua natura più «politica» rispetto alla spigolosa personalità del predecessore, unitamente alle pressioni dello stesso Capo del Governo, determinarono la ripresa delle esperienze di Ferretti del 1936, combinate con un rivoluzionario progetto redatto dall’ammiraglio Eugenio Minisini, allo scopo di realizzare un piccolo battello, che questa volta avrebbe dislocato 13 t e sarebbe stato dotato di un’elica trattiva a prora.
Tale scelta inconsueta era legata, oltre che ai noti limiti di potenza esprimibili dall’originario motore unico progettato nel 1935, dalla contingente impossibilità, dato lo stato di guerra, di ricominciare le esperienze su questo genere di motori unici. Vi aveva influito anche l’esito, inaspettato, di un precedente ciclo di prove effettuato nel 1938-1939 volto a creare, indipendentemente dai precedenti sforzi di Ferretti, un piccolo sommergibile convenzionale forzatore di porti», destinato originariamente a operare, in veste di mezzo d’assalto, a fianco dei barchini e dei «siluri a lenta corsa» (5).
In effetti, il Ministero aveva stipulato con la società Caproni, il 20 febbraio del 1939, un contratto per la fornitura di un piccolo battello da 16 t, denominato CA3 e impostato subito dopo presso l’AVIS di Castellammare di Stabia. L’unità, per quanto si richiamasse alle esperienze allora in corso coi due precedenti sommergibili CAl e CA2 da 13,5 t (ordinati nella tarda primavera del 1937 e consegnati nell’aprile dell’anno successivo), rispecchiava in realtà il concetto, tipico del conte Caproni, del «cacciabombardiere del mare». Era, cioè, concepito per operare, più che come forzatore di porti, quale unità cacciasommergibili e doveva essere realizzato in grande serie (6).
Il CA3, analogo come architettura a una versione in scala ridotta dei futuri e assai più noti «CB», fu tuttavia abbandonato nel giro di un mese. Un nuovo ciclo di prove condotte alla Spezia aveva dimostrato, infatti, in modo ìnoppugnabile la materiale impossibilità, per un battello così piccolo, di mantenere l’assetto al momento del lancio.
Tale fatto, congiunto alla impossibilità di potenziare il motore unico a combustione interna del professor Ferretti e vincolando, di conseguenza, il dislocamento in superficie del nuovo «sommergibile d’assalto» a non più di 13 t, indusse il tenente generale (AN) Eugenio Minisini, presidente del Silurificio Italiano di Baia e direttore generale dell’IRI, a studiare la strada delle eliche trattive, anziché propulsive, sulla nuova piccola unità.
Il progetto venne subito autorizzato dallo Stato Maggiore della Marina con la vecchia sigla originaria SA (Sommergibile d’Assalto) attribuita nel 1936, e venne coperto dal massimo segreto.
Ultimata la redazione del progetto, il piccolo sommergibile fu impostato, nel 1941, presso lo stabilimento di Baia e venne completato all’inizio dell’anno successivo. L’interesse della Marina per la nuova unità e le pressioni del Capo del Governo furono tali che lo Stato Maggiore autorizzò, a un paio di mesi dall’impostazione del primo battello, una seconda unità, assegnata anch’essa al medesimo Silurificio e destinata a ottimizzare i periodi di prova.
All’ SA1, le maestranze e gli stessi dirigenti dello stabilimento, complice una pellicola d’avventura di grande successo in programmazione in quel momento nelle sale cinematografiche italiane (7), assegnarono il nomignolo di Sandokan, ed al suo gemello quello di Yanez.
L’unità
L’ SA1 era un battello fusiforme dal dislocamento in emersione di 13 t. Era lungo 13 m e aveva un diametro massimo di 1,5 m. Si basava su una chiara ispirazione progettuale siluristica, più che sommergibilistica e in analogia con le armi dell’epoca, avrebbe potuto raggiungere una profondità massima di 25 m. L’equipaggio previsto comprendeva ben tre uomini, collocati a prora, due dei quali addetti esclusivamente al funzionamento del motore e delle numerose apparecchiature ausiliarie.
L’apparato motore a combustione interna era rappresentato dall’ormai solito Isotta Fraschini “Asso” a quattro tempi, da 350 hp in grado di assicurare, con dimensioni e pesi nettamente inferiori a quelli dei motori elettrici e soprattutto, delle relative batterie di accumulatori, una velocità subacquea massima di 15 nodi e in superficie di 13,5 n. L’autonomia in immersione era di 2 ore alla velocità massima, mentre in superficie era teoricamente di 100 miglia.
Tutte queste ingombranti e delicate apparecchiature ausiliarie si rilevarono, sin dal primo ciclo di prove, condotte nell’inverno del 1942. soggette a frequenti avarie
La necessità di assicurare la pressione dello scarico del motore a un livello costante pressoché equivalente a quello della pressione atmosferica anche alla quota massima di 25 m, venne assicurata dai progettisti facendo raffreddare il gas di scarico, che usciva dai cilindri alla temperatura di 700° circa, mediante un radiatore a diretto contatto col mare che abbassava la loro temperatura fino al valore di 100°.
I gas di scarico venivano quindi aspirati da un’apposita pompa regolata barometricamente, così da assicurare una pressione costante e analoga a quella atmosferica, liberando fuoribordo circa 3/4 del loro volume complessivo. La percentuale residua dei gas veniva raffreddata ulteriormente da un altro radiatore e quindi mischiata, una volta purificata dall’alcool e dai residui della combustione, con l’ossigeno, custodito in bombole, allo stato di gas, all’interno dello scafo, nella proporzione del 25%.
Il miscuglio così prodotto veniva quindi aspirato nuovamente dal motore, rientrando nel circolo in sostituzione dell’aria atmosferica. Naturalmente, tale apparato motore si rivelò subito oltremodo sensibile a qualsiasi improvviso mutamento di pressione.
Nel corso della navigazione in immersione, il gas in ciclo all’entrata era rappresentato da un miscuglio formato approssimativamente da un 25% di 02, un 5% di CO, 65% di C02 e, per il resto, da vapore acqueo. I gas di scarico contenevano tracce di 02, CO nella misura del 5%, un 70% di C02 e un 25 % di vapore.
L’onda formata dallo scarico era scarsamente visibile, data la condensazione immediata del vapore e la solubilità in acqua salata del C02 sotto pressione. Oltre ai citati radiatori destinati al raffreddamento dei gas e alla pompa di esaurimento, i due piccoli battelli disponevano di un condensatore, di un filtro e di un apposito raffreddatore dei gas di scarico aspirati nuovamente dal motore e anche di pompe per l’estrazione dell’acqua, di un miscelatore per l’ossigeno, nella proporzione del 25% e di una pompa a iniezione per l’alimentazione ad alcool dei cilindri.
Tutte queste ingombranti e delicate apparecchiature ausiliarie si rivelarono, sin dal primo ciclo di prove, condotte nell’inverno del 1942, soggette a frequenti avarie, nonostante la grande cura dimostrata dagli operatori e i continui perfezionamenti via via apportati dai progettisti e dai tecnici, sulla base delle esperienze in mare. Proprio queste stesse difficoltà pratiche, manifestate dall’ SAI e confermate in seguito dall ‘SA2, compromisero ben presto l’intero programma. Perciò il Sottocapo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Luigi Sansonetti, il 12 marzo 1942, scrivendo a Mussolini, così si espresse: L’idea del piccolo sommergibile nelle sue linee generali non è nuova.
Essa è stata esaurientemente presa in considerazione. Una proposta e precisamente quella del Silurificio Italiano, progetto Minisini-Ferretti, è stata sviluppata addivenendo alla realizzazione di un esemplare sperimentale. Malgrado l’indiscussa perizia degli ideatori, i mezzi a loro disposizione e l’ausilio della Regia Marina, da circa sei anni tali esperienze non hanno sortito lo sperato risultato, sebbene non si pretendesse di ottenere una realizzazione completamente soddisfacente sotto tutti i punti di vista del problema che si voleva risolvere» (8).
D’altra parte, le prove in mare dei due battelli avevano confermato la validità delle originali soluzioni architettoniche adottate, arrivando addirittura a superare le stesse speranze iniziali dei progettisti. L’idea di partenza era stata di realizzare solo un sommergibile di 15 t di dislocamento in grado di lanciare, da poppa, due siluri da 450 mm, senza dover affrontare gli insormontabili problemi di assetto longitudinale presentatisi col CA1 e il CA2 nel 1939.
Sia l’ SA1 che l’ SA2 erano stati, pertanto, dotati entrambi di una coppia di eliche prodiere coassiali, scelte dopo una lunga serie di prove condotte dapprima presso la vasca di Roma e, in seguito, in mare. Per tali prove era stato impiegato in un primo tempo un siluro da 450 mm opportunamente modificato e successivamente, un modello in scala 1:4 del battello definitivo. I risultati finali dimostrarono la pratica equivalenza, per un solido fusiforme, della soluzione trattiva rispetto a quella propulsiva, ma accertarono una maggiore stabilità automatica della rotta nel primo caso. Tutto ciò fu di grande interesse, poiché gli studi teorici compiuti fino allora tendevano concordemente a negare la funzionalità delle eliche trattive rispetto a quelle propulsive.
Erano del resto emerse, nel corso delle prime esperienze in mare, anche insospettate doti di manovrabilità, pur con un raggio di virata di circa 200 m, come pure di stabilità e tenuta al mare. Per contro, erano stati constatati diversi problemi nelle manovre a macchina indietro e nei piccoli spostamenti laterali, nonostante la superficie del timone fosse superiore del 50% a quella dei precedenti analoghi mezzi subacquei realizzati nel corso dei due conflitti mondiali. Sempre allo scopo di incrementare la stabilità del battello era stato inoltre deciso, già in sede di disegno preliminare, di sagomare opportunamente la camicia del periscopio, lungo 1,5 m, arrivando a realizzare una vera e propria pinna dorsale.
La possibilità progettuale di impiegare utilmente entrambe le armi da poppa senza dover ricorrere a importanti manovre coi timoni di profondità venne altresì puntualmente confermata in occasione delle prove in mare, purché il profilo d’attacco del battello non avesse superato, al momento del lancio, un beta di 90°.
Le migliori condizioni di navigazione in immersione vennero riscontrate con una riserva di spinta di 300 kg. In quelle condizioni, la navigazione occulta del battello, che non disponeva di casse d’immersione, era assicurata dalla reazione idrodinamica ottenuta, alla velocità di 15 nodi, mediante un’inclinazione di 2° dei timoni orizzontali. Un cambio di quota poteva essere effettuato manovrando opportunamente detti timoni o variando il numero di giri del motore.
Gli “SA” dimostrarono ancora di reggere bene il mare, con una riserva di spinta di 600 kg. Questo margine era destinato a salire, per di più, a l.800 kg, una volta che fosse stata mollata la “barchetta” di piombo appesa sotto la chiglia. Era stato realizzato anche un meccanismo di compensazione, mediante acqua di mare, del combustibile e del comburente consumati, così da mantenere automaticamente l’assetto. I timoni orizzontali erano controllati direttamente da un’unica leva verticale, assistita da un servomotore oleodinamico Calzoni.
Verso la fine del 1942, al termine di un ennesimo ciclo di esperienze, i principali problemi dei piccoli sottomarini risultarono essere quelli generali della delicatezza meccanica dell’insieme, quelli connessi alla sicurezza dell’equipaggio per fughe di anidride carbonica in camera di manovra e quelli legati alla prolungata permanenza in mare della scia dei gas di scarico, talmente consistente da rivelare la presenza dell’unità.
Il motore
Nel 1942, l’insieme di questi problemi determinò la redazione da parte del professar Ferretti di un nuovo schema che si sperava avrebbe risolto tutte le difficoltà incontrate fino a quel momento. La soluzione, secondo gli studi congiunti portati a termine, tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, dallo stesso professor Ferretti e dal Capitano (AN) Giulio Cesare Sansonettì, figlio dell’ammiraglio Luigi (9), consisteva nella realizzazione di un nuovo tipo di apparato motore a circuito chiuso. Esso era basato su un diesel a due tempi, costituzionalmente di peso e volume assai inferiori, a parità di potenza, rispetto a quelli impiegati fino allora. In questa versione del motore, i gas di scarico usati per diluire l’ossigeno dovevano essere espulsi direttamente in mare, mentre quelli rimasti nei cilindri sarebbero stati arricchiti di ossigeno mediante l’iniezione diretta della necessaria quantità di 02 necessaria per arrivare alla combustione. I
l nuovo motore venne collaudato, nella primavera del 1943, al banco e in vasca. A differenza di quanto sperimentato col motore « Asso» ad alcool, venne riscontrata una assai minore sensibilità del complesso a eventuali variazioni della pressione degli scarichi. Il diesel si rivelò tanto affidabile da poter essere alimentato sia con ossigeno allo stato gassoso e compresso a 35 atmosfere, sia con l’ossigeno contenuto in un apposito comburente liquido realizzato secondo una formula elaborata dallo stesso professor Ferretti. Quest’ultima soluzione, di per sé rivoluzionaria per la tecnologia dell’epoca, sarebbe stata ripresa, trent’anni dopo, in occasione delle realizzazioni messe a punto a Zingonia dalla Maritalia Spa, sia pure con la fondamentale differenza della diluizione dell’ossigeno nell’anidride carbonica, rispetto a quella scelta da Ferretti nel 1942, di diluire l’ossigeno in un gas inerte, cioè l’elio.
Quell’anno Ferretti, con i buoni uffici del comandante Borghese, si era assicurata tutta la produzione di elio dell’impianto sperimentale di Larderello e accettando in questo modo una percentuale di anidride carbonica nella composizione della miscela, permetteva di fornire il comburente a mezzo di una normale pompa a iniezione, dello stesso tipo di quella utilizzata per il combustibile, con intuibili vantaggi dal punto di vista della semplicità e affidabilità generale del sistema. Infine, i cilindri venivano raffreddati ad acqua.
Questo geniale apparato motore dimostrò la possibilità di fornire ai piccoli sommergibili d’assalto, senza eccessivi sforzi meccanici né vibrazioni pericolose, una potenza di 40 hp per litro di dislocamento cubico, con un peso di 3 kg per hp. Un risultato del genere venne giudicato tanto interessante da sollecitare i vertici del Silurificio a mettere subito allo studio un’immediata applicazione dello stesso schema nel progettare una nuova generazione di siluri da 533 mm, da motorizzare ricorrendo al sistema descritto, riducendo, però, il peso a soli 2 kg per hp, con corse di molto più breve durata.
Il nuovo sommergibile d’assalto SA3 destinato a provare in mare l’apparato motore diesel a circuito chiuso di cui sopra e accreditato, sulla carta di una velocità in immersione di ben 20 nodi, avrebbe dovuto presentare alcune rilevanti differenze architettoniche, rispetto ai due predecessori di pari dimensioni e analoga autonomia. Innanzitutto, la soluzione delle eliche trattive, per quanto rivelatasi oggettivamente brillante, doveva essere abbandonata a favore di una coppia tradizionale di eliche controrotanti poppiere.
Conseguentemente, la camera di manovra doveva essere spostata a prora rispetto alla scelta adottata per le prime due unità di collocarla a centro nave. L’armamento passava da due a tre siluri da 450 mm alloggiati in altrettante gabbie orientate verso poppa. Le armi in questione avrebbero beneficiato dell’avvenuta introduzione a bordo dell’ SA3, di una nuova apparecchiatura destinata a regolare con continuità l’angolazione dei siluri dall’interno della camera di manovra.
Quindi, sarebbe stato necessario installare, sempre all’interno della solita pinna carenata, un nuovo periscopio lungo 2,5 m e realizzato appositamente dalla Galileo di Firenze. Inoltre, la condotta del battello doveva essere assicurata da un guidasiluri a piatto idrostatico derivato da quello in uso sulle armi da 450 e 533 mm, così da alleggerire i compiti del comandante al momento della fase finale della manovra d’attacco. Vi era l’esigenza che la bussola magnetica fosse di un tipo diverso e più efficiente, rispetto a quelle imbarcate fino a quel momento sui primi due sommergibili d’assalto.
Un diaframma liquido, più che una vera e propria paratia, collocato tra il locale motori e la camera di manovra e comunicante con l’esterno, avrebbe dovuto isolare l’equipaggio dagli scarichi del motore, proteggendolo così dal rischio di avvelenamento. I gas di scarico del nuovo battello, già quantitativamente minori rispetto a quelli della scia lasciata dai motori a combustione interna adottati in precedenza, dovevano altresì essere scaricati direttamente in mare, senza più ricorrere ai numerosi e incerti accorgimenti prima descritti. La stessa scia sarebbe stata ridotta, sull’esempio francese, con la soda caustica nel corso delle manovre d’attacco e di disimpegno della durata complessiva stimata in trenta minuti. Il fatto che i motori diesel non producevano azoto e la solubilità in acqua salata, alla semplice pressione di un’atmosfera e mezzo di buona parte del C02 presente, permettevano di considerare definitivamente risolto in sede tattica, anche quest’altro importante problema.
La realizzazione dell’SA3, indicato in un documento col nome ufficioso di Kammarnurì, fu ostacolata dalla primavera del 1943 dall’andamento non buono della guerra ed in particolare da un ulteriore nuovo progetto presentato sempre dal professor Ferretri, in vista della realizzazione di un ennesimo motore unico rivoluzionario di dimensioni ancora più ridotte e destinato non soltanto alla motorizzazione di un piccolo sommergibile d’assalto, ma anche all’apparato motore di un normale battello di media crociera, ottimizzato architettonicamente per la navigazione subacquea e con una velocità prevista di 25 nodi in immersione.
In questo nuovo progetto, la soluzione prospettata da Ferretti era basata su una turbina a combustione interna alimentata dal perossido di idrogeno H2 02 come comburente, utilizzando come combustibile l’idrato di idrazina, prodotto anch’esso esotermico, al pari dell’acqua ossigenata. Tuttavia, l’intero studio non andò oltre la pura speculazione teorica, senza cioè che fosse possibile giungere, prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943, alla fase sperimentale sul banco di prova (1O).
Il nuovo e ultimo schema proposto era del tutto analogo a quello della turbina Walter, sviluppata indipendentemente dai Tedeschi sin dal 1936 e studiata senza successo dopo la guerra dagli Statunitensi, dai Sovietici e soprattutto dagli Inglesi, fino all’avvento generalizzato, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, dei battelli nucleari.
Modalità di impiego
Parallelamente alle esperienze tecniche in corso, la Regia Marina aveva anche affrontato, tra il 1942 e il 1943, anche il problema di come impiegare i nuovi piccoli sommergibili d’assalto. Dopo aver scartato, sin dalle prime battute, la possibilità di utilizzare gli “SA” per normali missioni di agguato, sia pure sottocosta, a causa dell’eccessivo lavoro gravante sull’equipaggio, quei battelli furono considerati come una sorta di siluro a lunghissima portata da lanciare in mare a opera di cacciatorpedinieri modificati, qualora le circostanze tattiche lo avessero permesso, dirigendoli per radio, direttamente da bordo del caccia lanciante o da un aereo, verso unità avversarie.
Dopo la manovra d’attacco (da condurre in assenza di idrofoni, osservando il bersaglio col periscopio) e il disimpegno a grande velocità, il battello sarebbe dovuto emergere, nelle intenzioni dei pianificatori e sarebbe rientrato alla base coi propri mezzi, oppure sarebbe stato recuperato dall’unità vettrice.
La messa in mare degli “SA” doveva essere effettuata dal caccia senza variazioni di rotta o riduzioni di velocità.
A questo scopo il sommergibile d’assalto doveva essere filato a mare in condizioni di riserva di spinta tendente allo zero, scorrendo lungo la poppa del cacciatorpediniere mediante una serie di rulli ricoperti di gomma e disposti in coperta per una lunghezza complessiva di 25 m. Il battello era collegato mediante un cavo d’acciaio ad un’ancora galleggiante, mantenuta sospesa fuori bordo da un apposito albero. Una volta filata in mare, l’ancora galleggiante avrebbe sottratto, per 3-4 secondi, dalla potenza dell’apparato motore della nave quella necessaria a vincere l’inerzia del sommergibile d’assalto, facendogli percorrere tutta la lunghezza della corsa sui rulli e il successivo prolungamento come un trampolino realizzato a poppa della silurante.
Il sottomarino “SA” sarebbe quindi sceso in mare di poppa, che sostenuta idrodinamicamente, doveva fare da fulcro per la successiva manovra di immersione della prora. A questo punto il pilota del battello doveva avviare le eliche prodiere, dando inizio alla navigazione occulta in direzione del nemico, secondo le indicazioni comunicategli subito prima di lasciare l’unità vettrice e modificate, se necessario, durante la rotta di avvicinamento mediante segnali radio trasmessi dal cacciatorpediniere o da un eventuale aereo ricognitore. Nel corso della navigazione, pertanto,
L’ SA .. sarebbe dovuto affiorare, di tanto in tanto, allo scopo di ricevere i segnali radio o comunque per osservare direttamente la situazione col periscopio. Tutte le manovre del piccolo sommergibile dovevano essere attuate, come abbiamo visto, agendo unicamente sui timoni orizzontali.
Per quanto l’andamento del conflitto non avesse permesso, nel corso del 1942 e dell’anno successivo, di distaccare, come originariamente previsto, una vecchia silurante destinata espressamente alle necessità del Silurificio di Baia, in quegli anni vennero condotte, con apparente successo, numerose prove di questa funambolica manovra, utilizzando i veloci motoscafi inseguimento siluri dello stabilimento e un certo numero di modelli di “SA » in diverse scale, fino a quella 1 :4.
Entrambi i battelli realizzati vennero, inoltre, filati in mare più volte, verticalmente, da un’altezza di 5 m, con l’equipaggio a bordo, rilevando l’attitudine dei sommergibili d’assalto e dei vari apparati a resistere all’urto e alla decelerazione. Anche il personale dimostrò di resistere allo sforzo fisico e psicologico connesso, e di essere in grado di dare inizio, subito dopo, alla navigazione occulta.
Un’operazione spregiudicata
Discutibile sembrava la reale possibilità di attuare in guerra questo macchinoso schema operativo, figlio diretto delle infelici soluzioni adottate tra la seconda metà del XIX secolo ed il 1945, in vista dell’accoppiamento dell’autonomia e della tenuta al mare di una grande “nave madre”, con la velocità di un insidioso piccolo mezzo subacqueo, occultamente attivo a grande distanza dalla costa ed avente a suo vantaggio il decisivo fattore sorpresa (11). Comunque, i due “SA” completati nel 1942 poterono avere una loro utilità, sia pure indiretta, nell’estate del 1943.
Infatti, secondo la documentazione rinvenuta nella capitale federale degli tati Uniti, il servizio segreto della US Navy – che aveva a Napoli e Baia il proprio principale centro nel Mediterraneo, seppe delle esperienze dei battelli in questione apprezzandone subito, probabilmente con qualche esagerazione, le eventuali potenzialità. Nel corso dei contatti intervenuti nell’agosto del 1943 tra gli Statunitensi e alcuni rappresentanti del Governo italiano prima della conclusione dell’armistizio, i primi consci dell’interesse americano per le unità in questione, offrirono, a comprova della buona fede del nostro esecutivo nel trattare l’armistizio, ogni elemento sui due battelli di Baia, militarmente inutili ma tali da impressionare i loro interlocutori.
L’operazione secondo un rapporto riassuntivo dell’ OSS (Offiee o/ Strategie Serviee, predecessore dell’attuale Clà), datato 1 novembre 1943 e declassificato recentemente, venne messa in atto ai primi di settembre del 1943 (12). Tutto fu fatto all’insaputa dei più alti responsabili della Regia Marina (13) e della Decima MAS, che aveva seguito direttamente sin dall’inizio l’intero progetto del sottomarino italiano.
Si ricorse all’espediente di affondare in un dato punto del Golfo di Napoli un’imbarcazione di servizio, con a bordo alcune parti essenziali dell’apparato motore di entrambi i battelli, oltre a certi elementi degli apparati motori sperimentali di una nuova generazione di siluri. Tali materiali, assieme a quelli sfuggiti alla razzia tedesca successiva all’armistizio, furono poi recuperati agevolmente, nell’ottobre del 1943 nel giro di soli quattro giorni dall’entrata dei primi reparti statunitensi a Napoli.
Il lavoro fu compiuto da una squadra di sommozzatori della US Navy comandata dal tenente di vascello della Riserva Navale Henry Ringling North, il quale aveva come superiore diretto il Colonnello Donovan, detto «Wild Bill, fondatore dell’OSS e fu reso possibile da uno schizzo molto preciso fornito agli Americani dai «contatti» italiani.
Inoltre, risalgono allo stesso periodo alcune fotografie, intitolate Salvage Operations at Royal Italian Torpedo Works e rintracciate in America al pari della documentazione che ha costituito la base del presente scritto.
Epilogo
Nel novembre 1943 i due sommergibili d’assalto italiani furono inviati smontati negli Stati Uniti a bordo di un’unità da guerra della US Navy. Dopo un ulteriore ciclo di esperienze, entrambi i battelli vennero demoliti al termine del conflitto.
Purtroppo, presso la Biblioteca del Congresso, a Washington, sono state rinvenute soltanto delle fotocopie di stampe delle due unità, poiché gli originali, ammesso che siano esistiti, dovevano a suo tempo essere andati perduti. È, tuttavia possibile, grazie a tali sbiadite riproduzioni presentare qui delle immagini, dovute all’abile matita di Maurizio Brescia, dalle quali si rileva nelle linee essenziali l’aspetto di tali battelli.
Abbiamo cercato nelle pagine precedenti di ricomporre un capitolo di una certa importanza e finora quasi del tutto sconosciuto (13), dell’evoluzione dei battelli subacquei italiani, vero e proprio anello mancante tra la numerosa Squadra Sommergibili dell’anteguerra e le successive realizzazioni della Marina Militare ritornata ora, dopo oltre mezzo secolo, sulla strada storicamente inevitabile prima ancora che necessaria, del sottomarino (14). Il Salvatore Todaro della nuova Classe “U 212” chiude il ciclo storico inaugurato nel 1941 con il piccolo ed ambizioso SA1.
NOTE:
- Enrico Cernuschi “Il sottomarino italiano” – Storia di un’evoluzione incompiuta, 1909-1958 – Supplemento alla Rivista Marittima, aprile 1999
- Gino Galuppini, “Lo schnorchel italiano” – Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1986.
- Questo progetto, naturalmente modificato, nel 1943 sarebbe stato alla base dei futuri piccoli sommergibili antiinvasìone – classe “CM” nel marzo di quell’anno, su iniziativa dei CRDA e dell’ammiraglio De Courten, nominato in quegli stessi giorni Sottocapo di Stato Maggiore aggiunto della Regia Marina.
Enrico Cernuschi, – L’ultirno somrnergibìle – Storia Militare – novembre 1998. - Non a caso il ministro degli armamenti tedesco Albert Speer osservò nel febbraio del 1943, mentre studiava i progetti commissionati dalla Marina Tedesca appena nel novembre dell’anno precedente, dei nuovi sommergibili del tipo “XXI” – considerati ormai l’ultima speranza dell’arma subacquea germanica – “il nuovo elektroboote non comporta alcuna innovazione tecnica e i principi costruttivi ci sono noti da anni… Léonce Peillard, La battaglia dell’Atlantico” – Mondadori – Verona 1976, pag. 405.
- Enrico Cernuschi, “Il progetto Sigma” – Storia Militare – ottobre 1995.
- Erminio Bagnasco “I sommergibili tascabili tipo C.A” Rivista Marittima – luglio 1962.
- “I pirati della Malesia” – pellicola cinematografica distribuita nel 1941, regia di Enrico Guazzoni, con Massimo Girotti e Clara Calamai. Ebbe un grande successo, tanto che i produttori realizzarono l’anno successivo un seguito dal titolo “Le due tigri” – con gli stessi interpreti.
- Nicola Pignato “Il mezzo d’assalto Dux” – Storia Militare – giugno 2001 – pag.47
- Rivista Marittima – febbraio 1975, pag. 89.
- Mario Franco Ferrerri “Evoluzione del fluido propellente nei semoventi subacquei” – Rivista Marittima – ottobre 1947.
- Si pensi, volendo limitare l’indagine alla sola Regia Marina, alle due piccole torpediniere tipo -Thomycroft – Cicala e Locusta, da 13,5 t, destinate ad operare nel 1886 a bordo della nave di linea Duilio, alle successive vicende delle barche a vapore, eventualmente in grado di imbarcare due lanciasiluri a tenaglia laterali e in dotazione, all’inizio del secolo scorso, a tutte le unità maggiori italiane una delle quali “Il Regio incrociatore corazzato Garibaldi” arrivò addiritrura ad affondare il 24 febbraio del 1912, su ordine dell’allora contrammiraglio Paolo Thaon di Revel, nel porto di Beirut, la cannoniera corazzata turca Anvillah. Merita inoltre menzione l’imbarco a bordo di alcuni grossi piropescherecci armati dalla Decima MAS e oppotrunamente camuffati da navi neutrali, di alcuni motoscafi siluranti del tipo “MTSM” attivi, sia pure senza fortuna, nelle acque del Mediterraneo occidentale nel corso del 1912.
- Testualmente: .. from the bottom of the Bay of Naples where a barge loading some secret devices bad been sunk on orders from Badoglio, some days before the invasion of Italy. Il generale Ambrogio Viviani parla, non a caso, nel suo “Servizi segreti italiani 1815-1985”, ADN Kronos, Roma 1985, volume II pag. 30, di una organizzazione occulta dei Carabinieri. Pier Paolo Cervona, da parte sua, afferma a pagina 256 del proprio” Enrico Caviglia l’anti-Badoglio” – Mursia, Milano, 1997 – sulla base dei diari del maresciallo Caviglia, morto all’inizio del 1945, che il vecchio generale ligure (offertosi come capo della città di Roma e del Governo dopo l’improvvisa partenza, il 9 settembre 1943 del Primo Ministro Maresciallo Badoglio, aveva notato subito l’evidente timore del generale Angelo Cerica, nominato comandante generale dei Carabinieri, nell’imminenza del 25 luglio e comunemente ritenuto assai vicino a Badoglio, dopo le iniziali esitazioni manifestate al momento del cambio di governo. Per le discusse vicende spionistico-affaristiche del Silurificio di Baia nel 1942-1943, vds. Vera Zamagni (a cura di) – “Come perdere la guerra e vincere la pace” – Il Mulino, Bologna, 1997, p. 138.
- Come ebbero modo di osservare gli stessi Statunitensi, l’ammiraglio De Courten, Ministro della Marina e capo di Stato Maggiore della Marina dal 27 luglio 1943: “did not aid us prior to D-Day” (9 setternbre 1943). Elena Aga Rossi, “Una nazione allo sbando” – Il Mulino Bologna – 1993 – pag. 110.
- Per i contemporanei tentativi condotti talvolta su vera e propria base privata per arrivare comunque in Italia, alla realizzazione di un piccolo battello sottomarino a circuito chiuso vds., in aggiunta all’articolo indicato alla nota (5), quello di Achille Rastelli, “Il sommergibile d’assalto Delfino” – Storia Militara – novembre 2001 – dedicato alle realizzazioni di Pietro Vassena costruite tra il 1943 e il 1945 e il volume di Erminio Bagnasco e Marco Spertini “I mezzi d’assalto della X Flottiglia MAS – 1940-1945, Albertelli – Parma 1991 – che tratta dei vari progetti e prototipi di piccoli sommergibili d’assalto denominati “Campini-De Bernardi-Sassaroli”, succedutisi tra il 1942 ed il 1945.
Articolo pubblicato sul numero di agosto settembre 2002 del periodico “Rivista Marittima” e qui riprodotto per loro gentile concessione e dell’autore dell’articolo dott. Enrico Cernuschi.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!