Diario di un fascista alla corte di Gerusalemme (quinta puntata)
“40° ANNIVERSARIO DELL’INDIPENDENZA”
Nel 1988, in occasione della ricorrenza del 40° anniversario dell’Indipendenza, fui invitato a partecipare ad una celebrazione di veterani della Marina, che avrebbe avuto luogo al “Heichal Hatorbut” di Tel Aviv, il 21 aprile.
Non solo accettai, ma mi presi una vacanza, arrivando in Israele quasi una settimana prima.
A ricevermi all’aeroporto Ben Gurion c’erano i soliti Yankalè Ritov e Dodo. Svolte le pratiche doganali, prendemmo la via verso Haifa, per arrivare al Kibutz Maagan Michael, ove risiedeva Yohay con Saia.
Avrebbero voluto sistemarmi in un hotel nelle vicinanze del Kibutz, ma preferii una cameretta nell’appartamento di Yohay, per godermi una lunga rimpatriata, dal lontano passato ai giorni presenti: peccato che Saia fosse a letto, perché indisposta.
Il mattino, dopo colazione, facemmo un breve, rapido giro per le attività industriali del Kibutz, ove incontrai anche un italiano che da tempo viveva in quella comunità.
Nel pomeriggio ad Afula, presso Zalman Abramov e signora Rachel, per assistere ad una manifestazione tradizionale di parata equina, con corse varie. Cavalieri del Sud Africa si cimentarono in numeri di eccezionale bravura: cavalcando a pelo, a tutta velocità colpivano a ripetizione, con la spada, obiettivi di appena qualche centimetro quadrato. Era una gara tra una decina di cavalieri, ripetuta tante volte. Ci furono anche lanci di paracadutisti che, da altissima quota, atterravano tutti in uno spazio piccolissimo di una ventina di metri di lato..
Alla fine della manifestazione, da tutti altamente e gioiosamente apprezzata, tutto il nostro gruppo raggiunse il Moshav Merchavia, residenza di Zalman, ove avemmo la prova, ma non ce n’era bisogno, della cordialità di questa gente semplice e generosa: frutta, caffè, dolci, soft-drinks e tanta buona cera ed affettuosità.
La sera, tornato al Kibbutz, non potei cenare, tanto ero pieno.
Il giorno dopo riprendemmo presto il giro nelle attività industriali del Kibbutz. Elettronica d’alta tecnologia, il cui prodotto viene esportato per almeno il 65% in USA, mentre il resto serve a soddisfare le esigenze del paese.
Vale anche la pena ricordare che questo Kibbutz ha inventato e sviluppato quel sistema di innaffiamento a goccia, di cui conserva il Brevetto Internazionale; sistema che si espande sempre più nel mondo, Italia compresa, e da cui derivano tante iniziative industriali che naturalmente arricchiscono il Kibbutz.
Poi, visita alla fabbrica dei pesci, specie carpe, orate, sampietro ecc. Che organizzazione!
Alimentazione, ossigenazione, mantenimento temperatura, tutto automatizzato.
I “pools” dei vivai dei pesci, sono alimentati con l’acqua di un fiume: una stazione di pompaggio solleva l’acqua ad un punto dal quale, per differenza di livello, può giungere alle zone programmate.
Ma, c’è anche la fabbrica dei pesci colorati: è impressionante! Ed anche se sorto soltanto da qualche anno, milioni, miliardi di pesci di tutte le specie, che vengono spediti, via aerea, in tutto il mondo, Italia inclusa. Nella fabbrica elettronica, tutta computerizzata, ed in ulteriore sviluppo, c’è anche un settore laser, per la realizzazione di matrici originali, il cui processo è interessantissimo.
Poi visita alla produzione “uova e pulcini”.
La capacità in pulcini è di circa 6 milioni di unità l’anno: parte usata nel Kibbutz, il resto venduto a richiesta per chi ne ha bisogno.
Due grandi capannoni sfornano 20.000 polli da kg.2 ogni due mesi; naturalmente ad alimentazione automatica!
Tralascio la descrizione di altre attività, per il timore di annoiare.
Il giorno dopo, visita a Cesarea, luogo di vecchia conoscenza fin dal primo arrivo in Israele, e località ove incontrai la prima volta Yossele Huber, o meglio Dror.
Il porto e il forte, rimessi in ordine perfetto insieme all’acquedotto romano, rappresentano grande richiamo turistico.
A circa 200 metri dal porto, verso sud, la nuova meraviglia: “l’anfiteatro romano”, che fino a poco tempo fa era sepolto sotto una collina di sabbia. È stato scoperto per caso e riportato all’antica bellezza. È aperto da un lato come tutti gli anfiteatri e più di ogni altro si avvicina alla bellezza del Colosseo. Si dice che fra non molto vi rappresenteranno l’Aida, con tutti gli elementi al naturale: sarà certamente un grande spettacolo, anche per quanto concerne la rispondenza sonora.
Nella parte verso nord, secondo un rigido concetto di rispetto e salvaguardia della natura e del paesaggio, molte ville sepolte nel verde: naturalmente appartenenti a gente V.I.P..
Poi visita ad altro anfiteatro romano, a Suni, località lontana da cui partiva l’acquedotto per rifornire Cesarea.
L’anfiteatro non è della stessa magnificenza di quello recentemente riportato alla luce, ma la sua storia, mostrata ai visitatori anche attraverso un film, dice del passaggio e distruzioni da arabi, turchi e altre orde. La zona è stata convertita in “Parco delle rimembranze”.
Nuovo giorno, nuove visite: ci rechiamo in una località da cui ha origine lo sviluppo vinicolo in Israele, iniziato dal Barone Rotshild, in un paese che porta il suo nome, “Benjamin”, e nel quale riposa in un magnifico mausoleo. Non c’è chi non sappia che lo “Champagne francese Magnum”, appartenga a questa famiglia di finanzieri internazionali.
Verso mezzogiorno, arriva Dodo, per trasferirmi al Dan Hotel, per una questione di comodità logistica.
E, sulla via per Haifa, approfittiamo per far visita ad un vecchio amico dei primi tempi: Abraham Dar, che abita in una villa “V.I.P.”, realizzata secondo stile e costume spagnolo. Facemmo colazione, naturalmente alla spagnola, con vini prelibati, naturalmente spagnoli D.O.C., di cui il proprietario ne va grandemente orgoglioso. Abraham è un tipo particolare, un tipo eccezionale che richiederebbe un intero libro per descriverlo pienamente: ha una memoria visiva inimmaginabile ed a distanza di anni ricorda minuziosamente particolari che sfuggirebbero ai migliori osservatori. Non per nulla faceva parte del Corpo d’Intelligence israeliano.
La sua idea fissa era quella di voler diventare ricco! E, attraverso tante iniziative ed attività nazionali e internazionali c’è riuscito, ed oggi se la gode, buon per lui. Dopo una lunga sfottente rimpatriata lasciamo Dar; Dodo mi porta in albergo e ci lasciamo.
La sera prima delle 18 viene a prendermi Itzik (Ytzhak Brookman) e signora Ruchama, che per difficoltà di pronuncia ho sempre chiamata “la ragazza di Afula” per la sua provenienza; poi a casa di Dodo (David Rosenfeld) ove la signora Aiala fu veramente splendida nel fare gli onori di casa! Già c’erano Zalman e Rachel, Yankalè (Ritov) e Ruthie. La cena, copiosissima, fu servita presto perché per le 20 sarebbero arrivati tutti gli amici dei vecchi tempi.
Non so come potemmo resistere a non scoppiare anche con il solo assaggio delle pietanze: pollo, funghi, cinghiale, vari altri tipi di cacciagione, verdure cotte e crude, vini bianchi e rossi, dolci, frutta, liquori ed altro.
E, dopo le 20 giunsero tutti gli altri. “Soola il grande” (Kravit Israel) e signora Rachel; Habraham Dar e signora; Yaarov Vardy (e signora Tovat) che il mattino seguente partiva per la Russia, per raggiungere Mosca, città di cui era originaria sua madre; altri ed altri ancora, di cui al momento mi sfuggono i nomi, ma ognuno può immaginare la “caciara” di quella sera.
A mezzanotte, Itzik e Ruchama mi ricondussero all’Hotel Dan.
Il mattino seguente è ancora Dodo che passa a prendermi per una visita al Museo Nazionale della Marina. L’apertura al pubblico è alle 10, ma noi entriamo ugualmente, così riusciamo a fare una minuziosa visita ai cimeli scientifici e non, ed a tutti i reperti interessanti, che vanno dall’era romana ai giorni nostri. Passiamo poi al museo della Marina da Guerra Israeliana, che prende tutta la parte inerente l’immigrazione clandestina. Non manca nemmeno un Barchino, che mi riguardava direttamente, ma il luogo è chiuso e dobbiamo guardarlo attraverso i vetri. La nave che trasportava gli immigranti, forse quella stessa che per non farsi catturare dagli inglesi, andò direttamente sulla spiaggia di Naharria, è stata ricostruita sul tetto del museo come simbolica copertura.
Poi, ci recammo in un luogo veramente sacro a tutte le religioni, alle “grotte del Profeta Isaia”: in quel luogo sacro, non si può fare a meno di pregare: tutti pregano ad alta voce seguendo i libri sacri. Tutti vengono presi da una necessità spirituale che ti fa soffrire tremendamente. In quel luogo un credente come me è sopraffatto da quello spirito che ti sconcerta, che ti toglie la parola ed il pensiero, tanto da non sapere più dove sei, cosa sei.
Usciti fuori, ci volle molto per riacquistare la serenità in noi consueta.
Con Dodo, Aiala e qualche altro amico ci recammo in gita ad Akko, una cittadina araba/turca ai bordi del Libano. È un’antica fortezza che Napoleone Bonaparte non riuscì a conquistare durante la sua campagna d’Egitto, contro gli inglesi.
Il tempo era stupendo e come tutti i salmi finiscono in gloria, così ce ne andammo in un ristorante al porto, a gustare cibi locali, pesci e frutti di mare.
Mi riportarono poi in città, in albergo, per prepararmi alla Festa del giorno dopo, 21 aprile, per la celebrazione dei veterani della Marina Militare Israeliana, al “Heichal Hatorbut” di Tel Aviv.
C’erano un po’ tutti con autorità civili e militari: c’era anche l’allora ministro della difesa Hitzak Rabin, che salutai dopo aver ritirato il premio assegnatomi.
I discorsi ufficiali furono in ebraico e tenuti dal responsabile dell’organizzazione e dall’Ammiraglio Yohay Ben Nun.
Credo furono discorsi elogiativi di un Ufficiale inglese, che per un breve periodo negli anni 60, aveva comandato uno dei due cacciatorpediniere acquistati in Inghilterra; a testimonianza e riconoscenza ebbe una miniatura di ruota di Timone. Naturalmente l’altro ero io, ed a me, fu donato un bossolo di proiettile di cannone, da 4 pollici (105 mm.), tutto attorcigliato per effetto dello scoppio delle cariche dei due Barchini che affondarono la nave Ammiraglia Egiziana El Emir Farouk, nelle acque di Gaza, la notte del 22 ottobre 1948: bossolo recuperato proprio sotto la nave affondata, dai sommozzatori della 13a flottiglia d’assalto israeliana.
Era un simbolo di quell’azione e, mi sentii e sento orgoglioso di possedere un cimelio di tale valore storico.
foto: l’inglese ed io mentre ci rechiamo sul palco. Riconoscibile e plaudente il ministro della Difesa Rabin
foto: Io il bossolo accartocciato, ci avviamo all’uscita
Il giorno dopo, Yohay mi rimise la traduzione in inglese del discorso fatto su di me in lingua ebraica, ed i cui punti salienti suonano, come segue:
Fiorenzo Capriotti,
Nato in un piccolo paese in prossimità di Ancona, sulla costa orientale italiana.
Durante la seconda guerra mondiale fece parte di mezzi d’assalto della famosa X Flottiglia Mas, gruppo impegnato in molte azioni rischiose contro Gibilterra, Alessandria, Baia di Suda (Creta) e Malta. Capriotti fu ferito e fatto prigioniero nell’Azione contro la Base Navale di La Valletta, Malta… (…)… Capriotti, eccellente tecnico e puro combattente, svolse il suo compito con l’unità di Commando della Marina Israeliana con totale devozione ed identificazione con i nostri combattenti e la loro causa. Egli stabilì un diretto, affettuoso, cameratesco rapporto con i nostri assaltatori che lo avevano ricevuto e considerato come uno di loro stessi. (…) Ora, può essere affermato con certezza che Capriotti, con la sua attitudine, esperienza e devozione ha reso un significativo contributo nel raggiungimento della nostra preponderanza nella battaglia del Mediterraneo Orientale, con l’affondamento della El Emir Farouk ed uno spazzamine nelle acque di Gaza, nel 22 ottobre 1948.
Durante i nostri 40 anni di indipendenza ha sempre mantenuto un regolare contatto con i suoi camerati veterani della marina israeliana.
Johay
Presente alla manifestazione l’allora Ministro della Difesa, Generale Itzak Rabin.
In quel tempo il governo in carica era il Likud, partito conservatore, e Rabin ne era Ministro della Difesa, pur facendo parte del partito laburista!
Con ciò, non si deve intendere che Rabin fosse una “Colomba”: Rabin era un Falco, e che falco! Lo aveva ben dimostrato in guerra, anche come capo di Stato Maggiore delle Forze Armate d’Israele.
Aveva la fiducia illimitata ed il rispetto delle Forze Armate e del popolo tutto: era certamente l’uomo giusto per concludere la pace con i Palestinesi. Peccato che appartenesse al partito sbagliato, al partito socialista, che all’intransigenza del Likud preferiva la ricerca della via della pace con i Palestinesi.
Come la pace con l’Egitto, l’unico che potesse firmarla era il Primo Ministro Begin. Così con i Palestinesi sarà sempre un primo ministro Conservatore. E, forse Newtanau non ha la durezza e la forza per concluderla. Peccato!
In quei giorni di permanenza in Israele non poteva mancare una visita a Gerusalemme, anche perché mi dava l’opportunità di rendere omaggio alla gentilissima Signora Ada Sereni, che viveva in una specie di hotel per anziani. Fummo felici di ripassare la storia di tanti anni trascorsi e che ci separavano dall’incontro di Roma, dell’aprile 1948.
In quell’occasione volle farmi omaggio di un suo libro, “I clandestini del mare”, testimonianza tra cronaca e storia. Naturalmente, con una significativa dedica.
A Capriotti, con affetto grande
Ada Sereni
Subito dopo quella manifestazione di veterani, il giornale di Varese, “La prealpina” pubblicava con titoli di scatola un servizio da Gerusalemme:
Marò della “X MAS” nelle vesti di consigliere contribuì nel 1948 all’addestramento degli incursori su battellini d’assalto.
Nella storia della Marina israeliana Fiorenzo Capriotti ha un posto d’onore.
Per le giovani reclute dell’arma è quasi una leggenda vivente, un nome che si pronuncia con rispetto, nel circolo molto esclusivo degli “Anziani Combattenti”. Capriotti è accolto con la familiarità naturale che si dà solo “a chi è dei nostri”.
Capriotti, 70 anni, ex decima MAS, protagonista di alcune delle più rischiose e riuscite imprese di guerra della Marina Italiana nella Seconda Guerra Mondiale, fu nel 1948 membro di quel gruppo ristretto di volontari non ebrei che misero a disposizione del nascente Stato Ebraico la loro esperienza militare in veste di consiglieri.
La prima grande spettacolare operazione della Marina israeliana, l’affondamento della Nave Ammiraglia egiziana “El Emir Farouk” nel porto di Gaza, il 22 ottobre 1948, fu opera dei barchini d’assalto degli incursori, addestrati da Capriotti.
Capriotti, tornato in Italia nel 1952, vive a Legnano dove possiede un’impresa di Macchine utensili. Giorni fa è tornato in Israele per partecipare ad una riunione di veterani della Marina. In questa occasione gli è stato consegnato un ricordo di quell’epoca, il bossolo di un proiettile recuperato dal relitto dell’“Emir Farouk”.
Yohay Ben Nun, che guidò l’unità e che negli anni sessanta fu comandante della Marina, ci dice di Capriotti:
“Ci ha dato la sua esperienza bellica e operativa, era un grandissimo esperto, soprattutto nei sistemi di sabotaggio”. Anche se da allora molto è cambiato nelle tecniche, nei metodi e nei mezzi, usati dalle unità scelte della Marina, “lo spirito e i principi che ci ha inculcati” sono immutati.
Gli incursori della Marina Israeliana sono stati protagonisti di operazioni tuttora coperte dal segreto di Stato. Alcune delle loro missioni, forse anche nel recente passato, hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Capriotti, che afferma di essere sempre stato “un ribelle per natura” racconta che nel 1948 fu avvicinato a Roma da agenti israeliani, tra i quali Ada Sereni – allora tra i capi dell’emigrazione clandestina dall’Italia – e persuaso a trasferirsi in Palestina per addestrare la marina in formazione.
“Sono giunto in Palestina – ricorda – sotto false generalità, con un documento rilasciato a un certo mister Katz, profugo ebreo.
È così che comincia il rapporto con la Marina Israeliana. L’informalità delle relazioni tra ufficiali e marinai, il fatto che non era il grado a conferire l’autorità e il rispetto dei subordinati, ma la capacità di uomo e di combattente “che sa giocare a briscola con la morte”, conquistarono Capriotti.
Gli piacciono ancora oggi “l’ottimismo e la gioia di vivere degli israeliani, malgrado la guerra in corso con gli stati arabi e la minaccia incombente di sterminio”. È una stima che fu ricambiata. Secondo Capriotti la marina israeliana di oggi è forse la seconda nel Mediterraneo, intesa come giusta combinazione di uomini e mezzi.
F.to Giorgio Raccah
Un “flash” del 23 giugno 1988.
Tornato in Italia, mi vidi arrivare un pacco contenente un libricino, scritto da Marco Herman, Diario di un ragazzo ebreo, con prefazione di Primo Levi.
La dedica è molto significativa:
“A Fiorenzo Capriotti, figlio del popolo, al quale debbo un debito infinito.
A Fiorenzo Capriotti, padrino della nostra Marina da guerra”
Marco Herman
18.09.1988
PREFAZIONE
II diario di un ebreo d’Europa che copra gli anni della Seconda Guerra Mondiale è drammatico per definizione: per il fatto stesso che il suo autore è sopravvissuto per scriverlo, non può che essere la testimonianza di una strenua volontà di vivere o di una straordinaria fortuna. Ma in questo diario di Marco Herman la fortuna non ha molto spazio: Marco, «nato a Lwow (Leopoli) – che era in Polonia – il 15 ottobre 1927», deve la sua salvezza, e la meritata pace di cui oggi gode, molto più alle sue virtù che alla fortuna, e le sue virtù, di cui egli mai si gloria, ma che traspaiono da ogni riga del suo così disadorno racconto, sono l’intelligenza, il coraggio. la tenacia, ed una forza d’animo incredibile in un adolescente.
Eppure quest’uomo avventuroso e forte dimostra qui una singolare modestia. Racconta le innumerevoli prove a cui il destino lo ha sottoposto senza mai alzare la voce, né nel lamento né nell’invettiva, benché, a soli quindici anni, abbia già perso tutto quello che un uomo può perdere, la famiglia, la patria, la casa, la lingua. Ma Marco, caparbiamente, organicamente, si aggrappa alla speranza atavica, quella che ha sostenuto ed unificato Israele attraverso i millenni. Sotto questo aspetto, abbiamo veramente qui un testo esemplare: Marco non cede mai alla disperazione né allo sconforto, non si siede mai a piangere sulle rovine, non dubita mai che la vita sia degna di essere vissuta. Paradossalmente, in questo suo itinerario doloroso, c’è molto più spazio per la gratitudine e per l’affetto che per il rancore: il Male c’è, pervade tutto, sconvolge tutto intorno a lui, ma Marco non se ne lascia contaminare. Vede sempre una via aperta davanti a sé: eppure non è un credente, non ha stelle polari politiche, ed anche il credo sionista gli si rivela tardi, quando la grande tragedia dell’ebraismo europeo volge alla fine.
Pagina per pagina, lo seguiamo fin dall’infanzia: un’infanzia che, già prima della guerra, si svolge in un’atmosfera di miseria dickensiana, ed in cui il pane (alla lettera!) viene conquistato con un combattimento di tutti i giorni contro la fatica, la malattia, e l’antico antisemitismo polacco; ma c’è una casa, anche se ridotta ad una sola camera-laboratorio umida, sovraffollata e squallida, e nella casa c’è la dolcezza degli affetti familiari. Viene la guerra, l’invasione tedesca, e tutto viene spazzato via: ad uno ad uno, i familiari scompaiono. e Marco impara precocemente a vivere di espedienti, finché non viene a sapere che a Leopoli c’è una caserma di italiani. Sono soldati ben diversi dai tedeschi, formalmente loro alleati: hanno buon cuore, e non vanno tanto per il sottile in fatto di disciplina militare, di permessi e di divieti. Nella loro caserma ospitano una dozzina di altri ragazzi orfani, ebrei e cristiani: gli italiani non fanno di queste differenze, e Marco se ne stupisce; ma è prudente, non rivela di essere ebreo e si procura un documento falso «ariano».
Quando gli italiani vengono smobilitati e tornano in Italia, Marco li segue, e qui comincia la sua grande avventura. Al confronto con la Polonia, l’Italia tragica del 1943 gli sembra un grande paese, ricco e generoso: tutti lo aiutano e nessuno lo tradisce. È ospitato da contadini del Canavese, che lo trattano come un figlio e lo mettono perfino a studiare dai Salesiani: impara a servire messa, e lo fa «non peggio degli altri». Ma poco dopo entra in contatto con partigiani céchi, e non ha esitazioni: sa da che parte stanno il diritto e il torto, ha un suo conto da saldare, e diventa partigiano, anche se è «più alto del fucile di appena pochi centimetri». In breve, aiutato dalla sua intelligenza, sveltezza e conoscenza delle lingue, si rende indispensabile. Combatte in valle Orco, in val di Lanzo, in val Susa; è abbagliato dalla bellezza delle montagne, vive in un mondo esaltante e nuovo, che racchiude in sé esperienze che lo sconvolgono e lo maturano: lo splendore del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni di lotta. Negli ultimi mesi, il Servizio Segreto americano gli affida una radiotrasmittente, e il 25 aprile lo trova a Torino.
Così finisce la prima impresa di Marco, candido soldato di ventura, che come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l’Italia con occhio vergine, ed aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo. A lui, uomo fondamentalmente mite, è pero toccato condurre altre battaglie, che ha raccontate altrove: quelle da cui è nato lo Stato d’Israele che è adesso la sua patria. Ora Marco vive nel kibbutz Lohamei Haghettaot, che ha contribuito a fondare, ma ritorna ogni tanto in Italia, in Canavese, dove tutti lo ricordano e lo accolgono come un fratello. Lui poliglotta non ha più una lingua veramente sua: ha scritto queste sue memorie in ebraico, l’antichissima lingua dei padri che per lui era nuova, e che ha cominciato ad imparare solo nel 1946, al termine della sua avventura italiana.
Primo Levi
“Prefazione” che ho voluto inserire perché, oltre la tragedia nella quale vive il ragazzo protagonista del romanzo, rifulge la grandezza, l’umanità, la generosità del popolo italiano.
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