‘A pucchiacchiera in mano a criature
di Antonio Soccol
A Milano ripetono spesso una sorta di litania: “Offellee, offellee fà el so’ mestee”. “Offellee” è una forma contratta dal francese “oeuf ” e “lait”, cioè “uova e latte” e indica il pasticcere-fornaio. Il motto stimola ciascuno di noi a fare solo il mestiere che sa fare.
In Trentino, invece, suggeriscono: “Ciacole corte e luganeghe longhe”. Riccardo Valdagni, superbo oncologo e trentino doc oltre che caro amico, mi ha tradotto l’invito, edulcorandolo, in: “Poche chiacchiere e più attributi”.
” ‘A pucchiacchiera in mano a criature”, lo dicono a Napoli e, in lingua forbita, si traduce “(Dare/mettere) la vagina in mano ai bambini”. Me l’ha insegnato quel gran giornalista che è Gaetano “Ninì” Cafiero, napoletano verace.
Niente paura: non intendo trasformare questo articolo in una raccolta di detti popolari. Ma è sintomatico come, con maggior o minor crudele ironia, sia a ovest che al nord che al sud d’Italia, i dialetti abbiano elaborato concetti così analoghi, sostanzialmente simili. Non è cosa consueta: riflettete, per esempio, sul dettaglio che quello che al nord si chiama “uccello”, al sud si chiama “pesce” mentre in Sicilia diventa paradossalmente addirittura femminile (“la” minchia). Insomma, non sempre i saggi vernacoli hanno logica inoppugnabile ma, quando si tratta di parlare della serietà sul lavoro, della “fatica”, si trovano tutti d’accordo.
Alla fine di giugno del 1962, i responsabili della rivista specializzata che organizzava la prima edizione della prima gara offshore italiana, la Viareggio-Bastia-Viareggio, mi telefonarono: “Vieni a darci una mano in sala stampa?”. “ Ma potrò vedere la corsa?”, chiesi ingenuamente. “No. Nessuno, appena dopo la partenza, la potrà vedere: non esiste barca capace di filare quanto quelle iscritte alla competizione. Avremo, però, notizie via ponte radio con varie motovedette e barche di amici dislocate lungo il percorso”, risposero. Ovviamente accettai. Quarantacinque anni fa ero molto più giovane di oggi e l’entusiasmo e la curiosità erano molle irrefrenabili.
Così, il 14 luglio di quell’anno, mi ritrovai in una stanza del Club Nautico Viareggio piena zeppa di apparecchi radio, baracchini e aggeggi, per me, alquanto misteriosi. A capo di tutto quell’armamentario c’era Federico che sapeva maneggiarlo con grande abilità.
La gara, in quei tempi, si svolgeva in due tappe: si pernottava a Bastia e l’indomani si rientrava a Viareggio. Si erano iscritti in ventiquattro, partirono in nove, solo cinque arrivarono in Corsica e, l’indomani, si ridussero a quattro sul traguardo di Viareggio. Vinse ” ‘A Speranzella” di Attilio Petroni che tenne una media vicina ai 27 nodi, qualcosa di esorbitante per l’epoca e infatti la rivista organizzatrice, nel suo fascicolo di agosto, strillò in copertina “Hanno volato”.
Io, però, non mi ero molto divertito a star in quella stanza dei bottoni a registrare e trascrivere solo tempi e medie. Certo, avevo avuto più notizie di tutti e tutte di prima mano… ma volevo di più.
Gli eroi rientravano e ciascuno aveva la sua storia da raccontare: per qualcuno il mare era stato un inferno, per qualcun altro era quasi liscio come l’olio, per tutti era stata “molto dura”. Sì, ma quanto dura? Boh. Bisognava accettare i racconti e scrivere di conseguenza. Ma senza poter controllare. Quante erano “ciacole longhe e luganeghe corte”? Insomma ” ‘a pucchiacchiera” l’avevamo in mano noi, “cronisti-criature” del tempo. Era giocoforza , però, fare il nostro “mestee”.
L’anno successivo, l’invito si ripetè ma stavolta avevo qualcosa in più da fare: nei giorni precedenti la gara, dovevo, infatti, eseguire gli scrutini (i controlli) agli scafi iscritti alla competizione. Significava poterli esaminare per dentro e per fuori in ogni minimo dettaglio, controllarne le dimensioni, le attrezzature, le motorizzazioni, le dotazioni di sicurezza (specie quelle particolari richieste dal Regolamento della gara) eccetera. Un bel tuffo nel “riservato”, insomma.
Ma, dopo qualche anno di esperienza, mi annoiai anche di questo: spesso le barche erano le stesse dell’anno prima e sai che gusto a controllare che un 28’ fosse lungo proprio 28’…mica si allungano in funzione delle emozioni, le barche…capite a mia?
Così, riuscii a convincere la rivista per la quale nel frattempo ero passato a scrivere, di pagare il noleggio di un aeroplanino con il quale sorvolare la gara e fare anche delle belle foto. Adesso la gara la vedevo eccome e nessuno poteva più raccontarmi di un mare pauroso se nella realtà era “forza olio”, né stordirmi con libecciate inesistenti e tsunami micidiali e devastanti per farsi eroe ai miei occhi. E alla mia penna.
Le mie cronache diventarono più fedeli alla realtà, più oneste. Più serie. Più professionali, diciamo. Ma ancora non mi bastava. La verità è che io volevo correre in offshore e che volevo dire (scrivere) esattamente quello che si prova a coprire duecento miglia di mare a tutta manetta, quale che siano le sue condizioni.
Incominciai nel 1969, alla Viareggio-Bastia-Viareggio, con una barca da 7,50 metri fuoritutto (5,85 m al galleggiamento) che si chiamava “Barolodelta” perché era nata davanti ad una bottiglia di Barolo, nel ristorante di Guido Buriassi a Milano e perché era un progetto di Renato “Sonny” Levi che stava in quegli anni lanciando la sua linea delta (lo scafo, che tu lo guardassi in pianta, di profilo o in sezione, aveva sempre e comunque la configurazione geometrica di un delta). “Barolodelta” era spinta da una coppia di diesel Perkins e costruita dal mio amico Nino Petrone, titolare del cantiere Sapri di Salerno.
Primo pilota era Livio Macchia che, in quanto direttore commerciale della Perkins Italia, aveva messo a disposizione i motori. All’epoca gli sponsor non esistevano e per correre bisognava metter mano al portafogli personale, per questo ogni possibilità di risparmio era molto ben vista… Per la cronaca, arrivammo primi fra le barche diesel (alla media di 36,10 nodi).
La gara, che si svolgeva ormai in una tappa unica con semplice giro di boa davanti a Bastia, era stata caratterizzata da un mare tranquillissimo: ricordo che le uniche due onde che incontrammo le aveva fatte una nave che transitava molto lontano dalla nostra rotta. E l’unico nostro inconveniente fu che avevamo finito presto le sigarette…. Si correva in maglietta e blue jeans, ci si affidava ad una bussola che faceva il giro di 360° ad ogni colpetto e si tracciavano le rotte sul tavolo del bar del Club Nautico, piegando in tre o quattro parti la “Gazzetta dello sport” in modo da far combaciare un lato con la rosa dei venti e l’altro con la retta di congiunzione fra Viareggio e Bastia.
Lo slalom da eseguire fra le isole Gorgona e Capraia si sviluppava direttamente in loco, a vista. All’arrivo scoprii che il vincitore, Don Aronow sul primo dei suoi “Cigarette” aveva Tenuto la media strabiliante di 64 nodi. Ma qualcuno degli altri arrivati dietro a lui aveva raccontato di aver praticamente doppiato Capo Horn mentre alcuni erano passati, in buona sintesi, attraverso i “quaranta ruggenti”… Ah, i piloti: a cacciar balle sono peggio dei pescatori con le dimensioni delle loro catture.
In dieci anni ho corso con monocarena, catamarani, trimarani (a triciclo rovesciato), con barche costruite in legno, in compensato marino, in lamellare, in vetroresina, in alluminio, spinte da motori diesel (italiani e stranieri), a scoppio (italiani e stranieri), entrofuoribordo (solo stranieri), fuoribordo (idem) e, alla fine, (le ultime quattro stagioni) con trasmissioni con eliche di superficie. Una cinquantina di gare, all’incirca. Una trentina di “primi piloti” differenti.
Avevo una semplice strategia: il sabato precedente la gara gironzolavo in banchina a salutare i piloti e i meccanici e sempre (insisto “sempre”) c’era qualcuno che mi diceva: “Domani puoi correre con me?” Per regolamento era indispensabile che a bordo di una barca da corsa vi fossero due piloti con la relativa licenza. Per questo capitava spesso-praticamente sempre che uno dei due “titolari” avesse qualche problema: di lavoro, di salute, di squalifica eccetera. E così, io trovavo “imbarco” facile.
Il più incredibile mi fu offerto all’una e mezza di una notte di giugno del 1972 , sotto alla gru del Club Nautico Bellaria, da Ireneo, uno dei fratelli Acquaviva che, in quel preciso istante, stavano terminando nel loro cantiere di costruire (giuro) l’imbarcazione “Snoopy” di Giulio Torroni: la gara doveva prendere il via appena otto ore dopo e la barca (un OP 2 spinto da una coppia di Mercury) non aveva ancora toccato l’acqua per la prima volta. Naturalmente accettai. Riuscimmo per miracolo a fare il pieno e a partire con tutti gli altri concorrenti: fu una gara “tormentata” perché metà delle cose di bordo non funzionava o addirittura non c’era (i flaps, per esempio, e non so se vi rendete conto di cosa sto parlando).
Ma, in qualche modo arrivammo a Opatja, in Jugoslavia. Durante la nottata sistemammo un po’ di cose rotte (o inesistenti) e il giorno dopo vincemmo la gara di ritorno. Alla fine della stagione, Torroni vinse il titolo europeo per la classe OP2.
Un’altra volta la situazione fu ancora più paradossale: Gennaro Russo, cognato del leggendario Salvatore Gagliotta e splendido pilota, mi avvicina e mi dice: “Totò, senti un po’: io sono nei guai. Ho sempre corso con Giorgio Villani che è anche il meccanico dei cantieri Gagliotta. Ma, per questa gara, Giorgio è stato squalificato come pilota per una sciocchezza che ha fatto nella gara di due domeniche fa. Io però senza di lui non posso correre: un meccanico a bordo io lo voglio.
Facciamo una cosa un po’ all’italiana?” . “Sarebbe a dire?”. “Sarebbe che io ti iscrivo ufficialmente come secondo pilota e tu, naturalmente, fai la gara con me. Ma, di nascosto, imbarchiamo anche Villani: tanto, sotto al casco siamo tutti eguali, e al momento della partenza c’è un tal casino che nessuno lo riconoscerà”.
“Mmm… vabeh! Sì, ma la tua barca ha solo due posti di guida secchi e ben determinati. Giorgio Villani, dove ce lo mettiamo?” “Se vi mettete ‘pancia contro pancia’ o ‘culo contro culo’, di taglio insomma, e non con la faccia alla prua e al mare, riuscite a starci in due dentro a quel posto: Giorgio è magro.”, concluse Gennaro Russo. Il fatto che io non fossi proprio uno stuzzicadenti sembrò trascurabile.
E, allora, così abbiamo fatto: era la V-B-V (Viareggio-Bastia-Viareggio), cioè la più lunga (210/220 miglia marine) fra tutte quelle competizioni, il mare era un po’ incazzato (non molto ma un bel 3 con tendenza a 4 che, per una barchetta da nemmeno otto metri ft, non è proprio trascurabile), rompemmo un bel po’ di roba e impiegammo oltre sette ore. Ma provate voi a farle passare in quella astrusa posizione cui la configurazione dello scafo ci costringeva. Gennaro poi era uno di quelli che al via legava giù, a fine corsa, le manette del gas con un paio di elasticoni e li scioglieva solo dopo aver tagliato il traguardo…
Quegli anni furono una esperienza umana e tecnica unica e straordinaria. Ho capito più cose in quel periodo che nel resto della mia vita di giornalista del mare. Ci sono stati anche dei titoli: un paio di campionati nazionali, un europeo, un record del mondo. Non cercatemi nelle classifiche: in quegli anni si ufficializzava solo il primo pilota. Gli altri che erano a bordo, pur essendo piloti a tutti gli effetti e con licenza ad hoc, valevano zero sia per la FIM (Federazione Italiana Motonautica) che per l’UIM (Unione Internazionale Motonautica). Machisenefrega degli annali. Quello che contava era che le cose che andavo poi scrivendo sulle varie testate dove collaboravo erano vere, autentiche e vissute in prima persona; non chiacchiere di banchina. Insomma, niente ciacole longhe e luganeghe corte…
L’esperienza si concluse con gli ultimi quattro anni riservati a “Arcidiavolo”: fu dannatamente affascinante vivere quella barca da prima dell’inizio del suo progetto sino al record del mondo. L’ardire di Giorgio Tognelli nell’accettare un progetto di “Sonny” Levi che prevedeva una configurazione geometrica assolutamente nuova e inedita e una trasmissione con una elica di superficie mai collaudata prima in campo agonistico, i mesi della meticolosa costruzione nell’umido inverno di Bellaria, le delusioni delle prime prove, le cataste di eliche piegate come carciofi, il motore che si ruppe per tredici volte consecutive, il quasi affondamento ad Imperia per aver investito a tutta velocità un gavitello d’ormeggio semisommerso, la costruzione del secondo esemplare, la sostituzione del Super Vucano della BPM con un vecchio Kiekhaefer comprato usato dal clan Bonomi che smobilitava, le acide critiche dei “sapientoni” (“Con quel forchettone non combinerete mai nulla”), l’imbarazzo del “circo” alla nostra prima vittoria (“Ma va, avrete saltato qualche isola…”), l’emozione di prendere il via, come primo pilota (Tognelli, purtroppo, era sotto “insulto cardiaco” proprio quel giorno) alla Cowes-Torquay, con altre cinquantaquattro barche assatanate, l’esaltazione del nuovo record del mondo di velocità assoluta per la nostra classe (OP2) ad appena 12 km/h da quello di chi disponeva del doppio di cavalli e di cilindrata (OP1) e, infine, la umiliante (per la dignità umana) conclusione dell’avventura con il Presidente dell’U.I.M. che chiede “Perchè vi siete ritirati?”.
“Perché, nella curva di 360° della boa di Albarella, sì è staccato il cofano che copre il motore ed è volato a mare: per regolamento non si può correre con il motore a cielo aperto”. “Ma siete stupidi? Per una cosa di questo genere non ci ritira: basta tagliare il traguardo lontano da dove è posizionata la Giuria e chi volete che se accorga…?”
Già: prima si fanno le regole e poi, proprio quello che le ha scritte e ha il dovere di farle rispettare, ti insegna a ignorarle… Ma, allora, cosa corro a fare? Si dà il caso che il Presidente in questione fosse quel Francesco Cosentino che era anche pilota in attività di servizio e talvolta vinceva. Domanda autorizzata: chissà quanti motori o di quale cilindrata c’erano nella sua barca?, visto che bastava stare alla larga dalla Giuria per… ignorare le leggi sportive. In quello scambio di battute, con quella profonda tristezza per l’umiliazione alla dignità e ai valori dello sport, si chiuse la storia dei piloti Giorgio Tognelli e Antonio Soccol e della loro straordinaria barca “Arcidiavolo”, ancor oggi insuperata.
” ‘A pucchiacchiera” “in questo caso era finita nelle mani addirittura di un ex Segretario Generale della Camera dei Deputati, nonché Presidente (in carica) dell’Alitalia e della Unione Internazionale Motonautica il quale si era comportato molto, molto peggio di una qualsiasi” criatura”.
Un giorno qualcuno mi ha chiesto: “Racconta, dai: cosa si prova a correre in offshore? O meglio: cosa si provava, visto che oggi le gare offshore si fanno dentro ai porti…”
E io ho scritto così:
Tu sei là. Davanti hai l’infinito mare. La barca dondola appena. Dentro al casco il silenzio urla: è ovattato ma ti stordisce. Forse, per chi ti vede da terra, sei un po’ un marziano: una ridicola e improbabile specie di moderno cavaliere, un eroe. In realtà tu ti senti solo un uomo piuttosto goffo: quel salvagente immenso ti comprime il torace e ti spinge in avanti, in modo innaturale, la testa. La tuta ignifuga e la sotto tuta termoresistente ti pesano e intralciano i movimenti.
La visiera ti limita il campo ottico. Davanti hai il solito: l’infinito mare. E intorno gli altri: i tuoi avversari. Li guardi ma non li vedi. Vedi solo cavalli vapore e passi di eliche. Vedi, insomma, la loro potenziale velocità massima. Anche loro, gli altri piloti, sembrano dei marziani: caschi rossi, caschi arancioni, tute coloratissime, scritte di sponsor, spoiler folgoranti, antenne svettanti, bandiere al vento, barche sgargianti. Con dentro uomini, amici, compagni di sport e senti che improvvisamente anche tu sei solo una potenza, un’elica che morde l’acqua a un regime che è una variante. Infinita come il mare.
Nessuno sa, infatti, con certezza quanti cavalli-vapore erogano i tuoi propulsori. La tua vera forza motrice è sconosciuta a tutti: al progettista che ha scelto i motori, al costruttore dei motori stessi, al grafico che ha impaginato il depliant di questi blocchi di ferro (o di ghisa) e che ha tracciato una curva di potenza più estetica che reale, al meccanico che li ha elaborati, al cantiere che li ha installati, al fabbricante di eliche che li ha “elicati” (si dirà? mi scuso per l’orribile neologismo).
E, soprattutto, la tua forza motrice è sconosciuta a te che dovrai giocarla onda per onda, botta per botta, volo per volo. All’infinito quant’è infinito il mare. Non c’è nulla di più misterioso della vera potenza di una barca da corsa e quindi della sua effettiva velocità. Per questo, penso, i tentativi di record assoluto si fanno con ripetuti “lanci”: perché la velocità è sconosciuta e va cercata con pazienza e poi alla fine si tira una media e, più o meno, alla fine quasi la si indovina.
Tu sei là. E davanti hai l’infinito mare. La barca dondola appena. E dentro allo stomaco ti volano le farfalle. Quando, a terra, ti sei infilato il casco e sei saltato a bordo, lo hai fatto con totale apparente disinvoltura. Hai mollato con gesti precisi le cime d’ormeggio e le hai riposte con cura nel gavone mentre i motori si scaldavano passando alternativamente dal cupo brontolio delle bestie feroci all’urlo insaziabile e disumano del metallo forgiato. Poi hai fatto allargare di prua e con molta calma hai portato la grossa creatura fuori dal dedalo del porto.
Tutto questo lo hai fatto già piú e piú volte: gesti ripetitivi, ripetuti migliaia di volte: d’inverno per le prime prove d’assetto con il ghiaccio sul pagliolato, in primavera per i motori sotto gli acquazzoni di marzo che non ti risparmiano nemmeno l’osso più intimo e all’inizio d’estate quando il sole ti rende marmellata il cervello e i tubi di scarico sembrano uscire direttamente da un altoforno, per capire le eliche migliori. Sì. È tutto visto e fatto all’infinito. Ma oggi sei in gara. Non cambia nulla. Tranne le farfalle dentro allo stomaco. E non ci puoi far nulla. Le hai e te le devi tenere: sapevi che le avresti avute. Forse, addirittura, sei là proprio per loro. Per le farfalle. Già, le farfalle: non incominciamo adesso a chiederci “ma cosa ci faccio io qui?”: Chatwin era in Patagonia e tu sei sul mare. Infinito. Tanto la risposta non c’è. E allora vuol dire che la domanda è inutile. O sbagliata.
Tu sei là. La barca continua a dondolare e tu hai il casco, le farfalle e tutto il resto. E un razzo ti dice che manca un minuto al via. È un minuto fatto di 60 infiniti secondi. Sei tranquillo ma nervoso. Rilassato ma concentrato. Disponibile ma scontroso. Passi in rassegna tutto ma non analizzi nulla. Vorresti intervenire ancora su mille dettagli ma sai che è troppo tardi anche per il piú banale di loro. Guardi con disgusto, con avidità e con malinconia la sigaretta: rubi l’ultimo tiro e ti avanza solo il tempo di abbassare di colpo con una mano la visiera del casco e con l’altra le manette degli acceleratori per far schizzare il tuo barco via, con tutti gli altri. Il mare ribolle e tu sei solo una delle sue infinite bollicine impazzite. Sgambetti nell’acqua emulsionata da milioni di pale di eliche che girano pazze sfregiando inutilmente la liquidità dell’infinito. Le farfalle si lanciano in un assalto feroce e crudele. E tu sai che l’unica cosa da fare è tenere le manette giú e andare oltre. A caccia del tuo pezzo d’infinito. In mezzo alle bolle impazzite.
Tu sei là. E la barca vola. Visto da fuori, se sei su un classe 3 i salti sembrano brevi, secchi, punture di zanzare crudeli. Se sei su un classe 2, quando ti infili in un’onda, è come se ti scontrassi con un cavallo selvaggio e scalpitante. Se sei in classe 1 ogni onda è un trampolino per un infinito “altrove”: navighi piú nello spazio che sul mare. Visto da dentro il gioco è diverso: ogni onda è una locomotiva che ti investe e vuol trascinarti via con sé. Tutto dipende da come la prendi: se fai le cose per bene salti fuori dall’altra parte elegante come un delfino e sorridente come un orso che si immerge nel fiume preferito per cacciare i salmoni. Se sbagli ti prendi una botta di centrifuga che ti fa capire tutte le emozioni di un gatto finito per sbaglio nella lavabiancheria. Ma cosa significa fare le cose bene o farle male?
La differenza è talmente infinitesimale che quasi non esiste. Certo, puoi essere così negato che togli il gas prima di entrare in onda, ma allora è solo un falso problema perché in questo caso l’unica cosa da fare è cambiare sport: semplicemente non sei un pilota offshore. Per carità: c’è gente che ha vinto dei titoli mondiali togliendo il gas prima di un’onda. Ma non sono i titoli quelli che fanno di uno un pilota offshore. I titoli servono per la cronaca, per la storia, per distribuire medaglie, corone, coppe e allori. Tutta roba che si può persino comprare a un eventuale supermarket della gloria.
C’è poco da dire: un pilota è un pilota. E basta. Da terra lo vedi subito: vedi la sua barca andare dove deve andare, dove lui vuole che vada e come lui vuole che vada. Da dentro non vedi niente. In compenso senti le vibrazioni. E capisci. Non occorre parlare. Talvolta dipende anche dal giorno, dall’umore, dai pensieri che uno si tira dietro: se non sei in feeling con il mare non c’è niente da fare: lavori d’istinto ma non ci sei davvero. Quel giorno alla Viareggio-Bastia-Viareggio quando, alla fine di una lunga e gloriosa stagione, abbiamo vinto il titolo Europeo di classe OP2, Giulio non c’era proprio con il melone: sembrava avesse paura di vincere e si è laureato campione pilotando male.
Tu sei là. La tua barca vola e tu hai molte cose da fare: tenerla in rotta, giocare le onde, controllare gli strumenti, guardare dove sono gli altri e cosa fanno, capire l’umore del tuo equipaggio. Tutte queste cose le devi fare sia che tu sia al volante, oppure alle manette, o semplicemente alla rotta. Anche se non fai nulla hai un sacco di cose da fare: per mare è sempre cosí. Ma non è pilota solo colui che guida la barca? No. È pilota chiunque sia in barca. Anche se sembra solo un pacco postale trasportato. Magari addirittura sballottato senza molta dignità. Una volta le gare duravano quattro, cinque, sei e anche sette ore: si partiva con a bordo persino i panini imbottiti e la bottiglia d’acqua.
Bastava una sola occhiata particolare fra la quinta e la sesta ora perché il cosiddetto “passeggero” giustificasse ampiamente la sua presenza a bordo. Per quel che mi riguarda, ho partecipato a parecchie gare e ho avuto modo di fare di tutto: dal primo pilota al “mozzo ingrassatore” che, come tutti sanno, è la più modesta delle qualifiche fra la gente di mare, ma non ho mai notato alcuna sostanziale differenza. Mi sono sempre e semplicemente sentito al posto dove volevo proprio essere in quel momento della mia vita. E sono anche sempre stato convinto d’aver fatto quello che andava fatto.
Tu sei là. La tua barca sembra un mustang selvaggio. Le miglia rotolano sotto alla tua carena. Che velocità hanno? Ecco una vera domanda inutile. Se sei là per vincere, l’unica velocità che conta è quella degli avversari che deve essere inferiore alla tua. Ma se sei là perché vuoi correre in offshore e consideri la vittoria un’appendice, una specie di optional alla grande festa, allora l’unica velocità che conta è quella della perfezione. Tu devi ottenere da quel mezzo il meglio di quello che può dare, non un millimetro all’ora in più o in meno: solo il meglio.
Se poi arrivi primo oppure ultimo non cambia proprio niente di niente. Quello che devi fare quando arrivi non è guardare la classifica ma sentirti dire dentro: ho tirato fuori il meglio da questa massa di legno, di plastica, di alluminio, di ferro, di bronzo, di zinco, di ghisa, d’acciaio, e di uomini; meglio di cosí non si poteva fare. E questa è la tua vera vittoria, se sei un pilota offshore. Se invece sei in cerca di punti per la vita allora facevi prima a startene al “bar Sport” sotto casa: agli amici puoi sempre raccontare quello che vuoi.
Tu sei là. E il mare prende a schiaffi e a pugni la tua barca. Tu pensi che persino Mike Tyson, se tu gli avessi offeso la madre, sarebbe piú gentile e carino di questo mare così incazzato. Ma non sei arrabbiato con il mare. Lui sta facendo solo il suo lavoro e non ti ha chiesto di andare là e di farlo a fettine con le tue eliche. A lui, di te, non gliene importa proprio niente e l’onda che ti può affondare di schianto se non ti trovasse sulla sua strada, se ne andrebbe allegra e spumeggiante a riposarsi in totale armonia sulla spiaggia più vicina. Così tu non hai sentimenti ostili nei confronti del mare.
Anzi. Gli parli e gli racconti le ultime novità di casa, i tuoi progetti e cosa farai da grande e magari poi gli canti delle vecchie musiche che ti escono spontanee dal cervello: può essere “Gracias a la vida” oppure “‘O sole mio”, la marcia trionfale dell’Aida o il coro “Beiden, beiden” della nona di Beethoven. Nell’ultima Venezia-Montecarlo all’altezza di Albarella cantavo, non so perché, “La montanara ohé” e poi, prima del crash su un tronco che il Po aveva trascinato al largo di Cervia, ero impegnatissimo a cantare al mare l’attacco della Toccata e fuga in si bemolle di Giovanni Sebastiano Bach. Scherzi della capacità liberatoria del mare.
Tu sei là. E la tua barca cade dall’ultimo piano e si schianta su un tronco che non hai visto, che non potevi vedere: si era nascosto dentro quella grande collina verdemarcio resa informe dalla pioggia battente e dal sale che le ondate hanno accumulato sulla tua visiera. Ma la pioggia non lava il sale? Sí, però solo sui libri di scuola. E tu quasi non senti l’urto perché hai la testa già piena zeppa di urti e un colpo piú secco degli altri è solo la norma, non una eccezione. Ma subito capisci che è successo.
Che la tua barca non potrà piú volare, quel giorno. E che la tua gara è finita. Si tratta di controllare con calma i danni e il da farsi, capire se puoi andare a terra con i tuoi mezzi oppure se devi chiedere soccorso, decidere se valga la pena di tentare una riparazione provvisoria oppure se la ferita consigli un ricovero della barca in clinica. Diventano situazioni da cronaca: la verità è che in quel momento tu non sei più un pilota offshore. Ti rimane però d’essere un uomo di mare ed è da là che incominci tutto da capo. Tu sei là. E il mare è sempre infinito.
Ecco: l’ho scritto perché scrivere l’è el mè mestee.
Articolo pubblicato nel mese di febbraio 2007 sulla rivista “Barche” e riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Buona sera Alex,
allora, non prenderla a male, duplicare i testi non è una buona cosa, ne per il web ed è vietato dalle policy di FaceBook che noi rispettiamo; è possibile fare delle “citazioni” da AltoMareBlu, le immagini se ne possono usare alcune e poi rinviare la lettura dell’articolo dalla “fonte”. I testi sono a noi autorizzati o di nostra proprietà, non tutte le immagini sono nostre e comunque, tutte a noi autorizzate.
Detto questo, nel caso tu volessi fare delle citazioni da AltoMareBlu secondo quelle che sono le regole di rispetto di tutte le policy (compresa quella di AltoMareBlu), nulla in contrario e ci farebbe piacere ricevere il link della tua pagina per poterla leggere.
Sperando di aver risposto alla tua gentile richiesta, resto a tua disposizione come amministratore di AltoMareBlu in caso di eventuali ulteriori richieste,
cordiali saluti,
Alessandro Vitale
Buon giorno,
vorrei saper se posso pubblicare alcune foto e articoli sulla mia pagina di facebook che riguarda la famosa corsa di motonautica Biareggio Bastia Viareggio,
attendo vostra risposta,
distinti saluti,
Alex Panattoni
Grazie a te, caro Gianni, che hai avuto la pazienza di leggermi.
Come ho già detto, io sono solo un cronista che racconta quello che ha vissuto cercando di trasmettere, nel migliore dei modi, le sue emozioni a chi… “non c’era”.
Se ci sono riuscito significa che ho semplicemente fatto bene il mio lavoro.
Un caro saluto,
Antonio
soltanto chi ha dentro il sacro fuoco dell’avventura giocata sull’immensità del mare può trasmettere agli altri la vibrazione di emozioni e sensazioni che non sono usuali per la vita di tutti i giorni.
L’offshore è stato ed è ancora una dimensione dell’essere umano che sfugge ai canoni del vivere quotidiano. Meno male che ci sono in giro interpreti di questa disciplina in grado di restituirci quelle atmosfere, facendoci vibrare per un attimo come se ci fossimo stati anche noi.
Grazie Antonio Soccol.
Caro Achille,
mi ha fatto molto piacere leggere che, con le mie parole, ti ho fatto rivivere i bei momenti che precedono il via di una gara offshore.
Penso che tutti gli atleti abbiano quella sensazione prima di lanciarsi oltre la linea di partenza di qualsivoglia tipo di competizione o di avventura umana. Se ci pensi sono molto simili a quelli che abbiamo provato quando per la primissima volta una ragazza ci stava dicendo di sì…
Io l’ho provata anche a New York, oltre quaranta anni or sono, quando -al fine di una lunga scala del Museo d’Arte Moderna- ho visto (e sapevo che l’avrei visto proprio in quel momento) per la prima volta “Guernica” di Pablo Picasso e l’ho riprovato anni dopo quando sono andato a Madrid, al Museo Regina Sofia, a rivedere quel quadro stupendo davanti al quale sono stato due ore… in contemplazione.
Anche alla partenza di una manifestazione non competitiva come è la “Vogalonga” di Venezia (32 di chilometri di percorso nella laguna, da coprire vogando alla veneziana, in piedi) che ho fatto per ben 26 volte consecutive ho provato la stessa emozione: “navigare” , sia pure solo a pochi nodi, assieme a oltre millecinquecento/duemila altri natanti è emozionante e ti garantisco fa venire “le farfalle nello stomaco”.
E’ il bello delle emozioni: una cosa di cui la vita tradizionale è un po’ avara. Purtroppo.
Cordiali saluti,
Antonio Soccol
mi ha colpito molto il discorso delle “farfalle nello stomaco”.
Sono passati circa dieci anni dall’ultima volta, ma le ricordo ancora,o meglio quella sensazione di intrepida attesa di proiettarsi nel blue.
Era senz’altro quella sensazione forte ,dura, in alcune prove ,difficile da dominare e controllare che mi ha accompagnato per oltre dieci anni di gare e che mi faceva provare brividi ed al tempo stesso piacere.
Mi mancano.Grazie per averli fatti rivivere per un momento con questa bellissima descrizione.
Achille Ventura
Condivido tutto senza sconti o aggiunte!
Bello il tuo slogan che se permetti da oggi faccio mio con una piccola modifica di punteggiatura…….
Plastica? No grazie!
Grazie Alex!
Concordo,
bella e spettacolare manifestazione che ci proietta come italiani ai primi posti in europa come aree espositive ed organizzazione, di fatto però, nulla di nuovo!
Un grandissimo spazio di mini ville galleggianti con lussuosissimi interni, un salone del mobile mondiale con eccellenti rifiniture; alta falegnameria in una cornice di plastica. Bhà!
L’unico interesse potrebbe essere in nuovo Arcidiavolo, peccato che anche dopo la presentazione, non si sono viste immagini…
Plastica, no grazie!
Alex
Gentile Luigi,
nel ringraziarti per la tua segnalazione vorrei dirti che come direttore di questo blog cerco di essere sempre informato su quegli argomenti che riguardano la nautica in genere specie la sicurezza, la navigazione, come si affrontano le problematiche legate alle barche non più giovani, a come si riparano le barche in compensato lamellare multistrato ecc.
Devo dirti che per nulla mi interesso delle barche di lusso o superlusso che sono molto lontane dalla mia concezione di andar per mare e spesso sono solo una ostentazione di interni favolosi e costosissimi… Insomma villette di gran lusso ormeggiate in uno dei tanti porti del Mediterraneo, dove il riccone di turno fa bella mostra del suo palazzetto navigante. E’ chiaro che non mi interessa ne questo tipo di barche ne i ricconi che le comprano.
Non è un segnale di disprezzo assolutamente, ma è che proprio non è il mio modo di andar per mare. Io amo in assoluto le barche vere quelle che sono costruite con un materiale “nobile” come il legno lamellare di mogano o simili, progettate da persone speciali come Renato “Sonny” Levi, Franco Harrauer, GB Frare e che sono in grado di affrontare il mare anche formato ed incattivito, portando sempre tutti i loro passeggeri a casa e in grande sicurezza.
Barche con grandi doti marine che oggi non sono più progettate da nessuno, poichè tramite i pc si fa presto a scopiazzare progetti o realizzazioni fatte dagli attuali ingegneri che, a mio avviso, non sono comunque all’altezza di inventare nulla di nuovo. Le motivazioni sono sono diverse, ma si capisce che la preparazione di base è carente ed anche la passione viscerale é assente. Il mio punto di riferimento é sempre la carriera da grande progettista di Renato “Sonny” Levi che puoi leggere tra le righe di questo blog.
Un uomo eccezionale dall’estro inesauribile che ha progettato tante barche straordinarie, dalle A’ Speranziella, vincitrice di una memorabile gara offshore “Cowes- Torquay” del 1963 alla Speranzella II Cabin Cruiser, anch’essa vincitrice della “Viareggio-Bastia-Viareggio” del 1964, altra famosa gara off-shore. “Sonny” Levi un uomo eccezionale che ha inventato nel 1973 e primo al mondo, una barca da circa 13 metri come il Drago che con una modesta potenza, cioé due motori Cummins da 370 Hp cadauno, con trasmissine step-drive, altro suo invento brevettato successivamente, ed eliche di superficie, anche qui un altro successo come prima barca al mondo costruita in serie con eliche di superficie che raggiungeva e superva i 50 nodi di velocità massima.
La Guardia di Finanza ne comprò 12 esemplari per combattere il contrabbando delle bionde allora fortissimo ed agguerrito in Campania e successivamente anche in Puglia.
Caro Luigi, l’ing Levi fu l’inventore insieme ad Hunt della carena a V profondo, ma rispetto all’americano le “Carene Levi” erano sostanzialmente molto diverse. Sulla Speranzella l’angolo di diedro all’ordinata di poppa era di 22 gradi e la carena convessa aveva dei pattini che posti con un determinato criterio permettevano a questo magnifico cabin cruiser di affrontare il mare anche in condizioni difficili…
D’altra parte bastava andare all’attuale Salone di Genova per trovare riscontro a quanto dico. Io non ci sono andato ed ho fatto benissimo. Da quello che mi ha raccontato chi ci è andato non mi sono perso nulla. Molte persone e mi riferisco in modo specifico agli attuali armatori che non sanno della tecnologia dei materiali con cui sono costruite le loro barche in vtr o plasticoni. Inviterei loro ad informarsi con che materiali è costruita una porta dei loro yacht.
Esse hanno uno sputo di legno all’esterno, ma che all’interno al posto del legno è piena di tanti materiali compositi altamente tossici…Ovviamente la cosa si ripete anche per altri particolari. Oggi i costruttori di barche in vtr fanno quello che vogliono e non rispondono a nessuno dei materiali con cui costruiscono i loro prodotti. E’ qui il grande problema e a mio avviso si dovrebbe pensare, al fine di tutelare la salute di coloro che poi le utilizzeranno, un cartello che garantisca la salute di questi ultimi assicurando il non uso di materiali nocivi all’uomo. Questi armatori le sanno queste cose?
Inoltre sanno che la resina poliestere una volta iniziata la catalizzazione che dura a vita, la resina indurita vista al microscopio è un autentico colabrodo? Dai milioni di microscopici buchi e per effetto del sole e dell’innalzamento della temperatura nelle cabine di un maxi yacht in vtr si hanno delle esalazioni che con il tempo possono arrecare gravi danni alla salute?
Forse si farebbe bene a ritornare al passato, cioè quando le barche erano molto diverse da quelle attuali.
Sono troppo romantico lo riconosco, ma credo che vivere in ambienti più sani realizzati con il legno trattato a coppale e non con il materiali pericolosi sia certamente preferibile. Amo di gran lunga le barche “calde” che hanno come prodotto di base il legno e non i “freddissimi” e poco salutari plasticoni…
Scrivici comunque ogni volta che lo riterrai opportuno, ti risponderemo sempre guidati dalla nostra grande passione e scusami per lo sfogo, ma é quello che penso in merito all’argomento…
Giacomo Vitale
Grazie a te Bruno. Grazie per avermi letto e per avermi scritto. Andar per mare è stupendo. Andarci veloci è meraviglioso ma…attento: il mare non perdona gli errori. Mai.
Se hai scoperto da poco le manette impara bene ad usarle e tieni presente che la velocità assoluta è solo quella che ti permette di arrivare dove tu hai (o avevi)deciso arrivare… Altrimenti è solo velocità “relativa” e vale poco.
Ciao,
Antonio
Grazie Antonio.
Mi sono venuti i brividi per l’emozione mentre leggevo, e i neuroni specchio di non so quale lembo di corteccia si sono inesorabilmente accesi.
Ho scoperto le manette da poco, non potrò mai più farne a meno.
Grazie.
Bruno.