L’evoluzione della specie
di Antonio Soccol
Si racconta che quando Laplace, il grande astronomo francese, presentò a Napoleone una copia della sua “Meccanica celeste”, in cui descriveva la gravitazione universale e avanzava ipotesi sulla formazione del sistema solare, Napoleone abbia osservato: “Signor Laplace, mi dicono che avete scritto questo grosso libro sul sistema dell’universo, senza mai citare il suo creatore.
“E’ un’ipotesi di cui non avevo bisogno”, rispose Laplace. Quando Napoleone, divertito, riferì questa conversazione al matematico Lagrange questi esclamò: “Che bella ipotesi! Questo spiega molte cose.
Questo è l’incipit della prefazione di Luca e Francesco Cavalli Sforza all’ultima edizione (2007, Universale Bollati Boringhieri) di “L’origine della specie” di Charles Darwin. Un libro, scritto nel 1859, e che ancor oggi non fa dormire alcuni sciocchini mentalmente “non evoluti”.
Ma, per parlar di barche, è necessario parlare dell’evoluzione della specie?
Secondo Frank Schätzing, autore dello strepitoso libro, “Il mondo d’acqua. Alla scoperta della vita attraverso il mare” (casa editrice Nord) questa storia dell’evoluzione è iniziata appena 13 miliardi e 700mila anni or sono quando incominciò a piovere.
A esser sinceri -scrive Schätzing- non si può semplicemente dire che piovve. Diluviava proprio. Nessuna emittente televisiva oserebbe trasmettere un simile bollettino meteorologico. Quella pioggia aveva una temperatura di 300°C, la temperatura cui l’acqua si condensa quando la pressione corrisponde a 100 atmosfere. Continuò a piovere per millenni, un vero e proprio tempaccio da cani. Tutta l’acqua dell’atmosfera si riversò sulla Terra. Un miliardo e mezzo di tonnellate. Dopo la prima grande precipitazione, la Terra si raffreddò, si formarono le nuvole, cadde altra pioggia. A poi ancora nuvole. E pioggia. Nuvole. Pioggia. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Per milioni di anni.
Alla fine, il 70 per cento della superficie del pianeta era coperta d’acqua. Più o meno com’è oggi. Ma dentro a quell’acqua si generò la vita: prima una molecola unicellulare, poi una serie, quindi i batteri e via via tutto il resto. Gli ittiosauri, i dinosauri, Cita (intesa come scimmia) e quindi Lucy (detta poi, per motivi cinematografici, “Jane”), “Tarzan delle scimmie”, poi “Piccolo” che, non essendoci all’epoca una seria “sala parto”, ha deciso di collaborare nascendo già grandicello e sviluppato eccetera eccetera… fino a George W. Bush, oggi l’uomo più potente della Terra.
Quale sarà stata la prima barca di quegli ominidi, diretti cugini dei simpatici quadrumani, che per primi hanno avuto bisogno di traversare un fiume o un tratto di mare? Probabilmente un tronco d’albero, o un grosso ramo su cui mettersi a cavalcioni. Più tardi, forse, la carogna di qualche grosso animale gonfia di gas… (in pratica, l’antesignano del “gommone”). Sino ad arrivare alla canoa, prima vera e propria barca. Quando? Boh. Una risposta esatta per il momento non l’abbiamo. Il mare è molto misterioso e ci concede lentamente i suoi segreti.
Sapete perché il mare si chiama così? E’ una parola indoeuropea nordoccidentale che inizialmente significava “laguna”: nessuno dei nostri progenitori poteva immaginare che quella “laguna” di cui vedevano solo i primi pochi metri occupasse più di due terzi della Terra…
Ma c’è di più: il mio antico amico Jacques Rougerie sostiene che del mare sappiamo praticamente niente e da anni cerca di far capire che coloro che ritengono di conoscerlo sono solo dei pazzi. Ho lavorato con Jacques negli anni Ottanta, poco dopo che la Nasa gli aveva conferito l’incarico di studiare e realizzare il primo villaggio umano subacqueo. Era straordinariamente affascinante analizzare con lui, prima nel suo “studiò”, sotto ai tetti della vecchia Parigi e poi in quella sua straordinaria “peniche” ancorata proprio sotto alla Torre Eiffel, le possibili reazioni degli esseri umani (soprattutto i più giovani) all’idea di “vivere dentro l’acqua”, un elemento-ambiente teoricamente così ostile a noi terragnoli (di passaggio) e del quale la larga maggioranza dell’umanità ha tremenda paura, dimentica che i primi nove mesi di vita prenatale si passano proprio dentro all’acqua… Insomma, che prima nasciamo pesci e poi, dopo il parto, diventiamo uomini..
Ora Jacques Rougerie ha inventato qualcosa di ancora più sofisticato: il “SeaOrbiter”. Un “veicolo” con il quale andare alla deriva per gli oceani e studiarli. Ha una linea stranissima: qualcuno dice che somiglia ad un gigantesco ippocampo (cavalluccio marino). E’ alto oltre 50 metri e stabilizzato da una carena circolare del diametro di 10 metri e si comporta come un iceberg: 31 metri sono sotto al pelo dell’acqua e gli altri sono in superficie. Niente motori (tranne due piccoli ausiliari da azionare per evitare eventuali difficoltà: scogliere, bassi fondali eccetera). Si naviga alla deriva, trascinati dalle correnti perché così il contatto con il mondo subacqueo è naturale, spontaneo, facile.
Sott’acqua ci sono otto “piani” di lavoro dove operano a ciclo continuo 10 delle 18 persone di equipaggio: gli scienziati e i ricercatori (sono anche tutti sub e così se “fuori”, davanti agli oblò, c’è qualcosa di interessante, si infilano una bombola e escono a prelevarlo con banale semplicità). Nella superficie emersa della strana costruzione vivono e operano, invece, gli addetti alla logistica: diciamo i marinai. In teoria il Sea Orbiter può stare sempre in mare: certo, bisogna paracadutargli un po’ di viveri ogni tanto ma non è un gran problema.
A cosa serve questo aggeggio? “Si studieranno- si scrive sulle riviste on line specializzate in modo particolare le mutazioni climatiche, gli ecosistemi marini, la biodiversità, gli effetti psicologici e fisiologici sulla permanenza in isolamento ed in ambiente pressurizzato. Il Sea Orbiter salperà nel 2008. Alla sua realizzazione ha contribuito il famoso esploratore marino Jacques Piccard e l’astronauta Jean Loup Chretien. Al progetto ha collaborato anche la Nasa e l’Agenzia Spaziale Europea, questo perché la struttura servirà anche per addestrare gli equipaggi di future imprese spaziali”.
Questo per studiare il mare (e lo Spazio).
E per viverlo? A qui c’è da divertirsi. Andate al sito web: http://www.radiobremen.de/online/oceancit/beispiele.htm e sgranate gli occhi. E’ in tedesco e, anche se non lo capite, non ha molta importanza: basta guardare cosa immaginano le menti più fervide per il nostro futuro sul mare.
C’è una città marina, tutta costruita su palafitte, lunga ottocento (diconsi ottocento) chilometri… E poi vi sono esempi di isole (artificiali) di appena 300 metri di diametro e con una altezza complessiva di 40 metri (max 15 sul livello del mare, il resto “sotto”), dove, su costruzioni avveniristiche, potranno coabitare oltre 4mila persone… Il progetto, giuro, si chiama “Isola dei miliardari”…
Il concetto qual è? Non c’è più posto a terra, e allora creiamocelo sopra al mare che occupa il 70 per cento del nostro spazio vitale terrestre (il principio era stato ampliamente previsto anche dallo scrittore di fantascienza Isaac Asimov, negli anni Quaranta).
Ma volete davvero ridere? Cliccate su: http://www.radiobremen.de/online/oceancit/isula1.htm e guardate quali barche sono state ipotizzate per queste residenze così futuristiche da miliardari: cabinatini che ricordano da morire i gloriosi “Coronet” degli anni Sessanta/Settanta. Roba vecchia, insomma. Anzi vecchissima. Già. E noi, nautici, a che punto siamo?
Sfoglio con crescente irritazione quintali di riviste del settore e vedo sempre le stesse cose.
Mi hanno spiegato: avevamo gli “yacht” (Baglietto: “Ischia”, “Capri”, “Elba”, “16 m.”; Cantieri di Pisa: “Akir”; Cantieri di Lavagna: “Admiral” eccetera). Morti e sepolti.
Poi sono arrivati i “superyacht”: lunghezza media circa 30 metri, linee “slanciate”, anzi talvolta slanciatissime (peccato che nessuna avesse la purezza di disegno e la “classe” che avevano i progetti di Paolo Caliari o di Spadolini). Superati: roba da buttare ormai. Averne uno è come andare alla prima della Scala in minigonna e scarpe da tennis: trash, si dice.
Ora bisogna possedere un “megayacht”: minimo 50 metri fuoritutto. C’è una testata che si occupa solo di questo settore. Foto stupende, interni rocamboleschi, linee dell’opera morta ignobili, schede tecniche che tali non sono, linee dell’opera viva ignorate, velocità patetiche. Si parla con orgoglio di 15 nodi di punta… anche se qualcuno osa talvolta dichiarane 25/30 di nodi (tutti da contare). Su questo prodotto editoriale ho letto con orrore che le carene tonde sono da preferire perché garantiscono maggior spazio… per gli interni.
Ho anche letto che vi sono solo tre tipi di carene: quelle tonde, quelle plananti e quelle a V. Un grafico garantisce che sino a 23/24 nodi le più efficienti sono quelle a dislocamento (tonde). Passata quella velocità, sia gli scafi plananti che quelli dislocanti aumentano in modo “sgradevole” la loro resistenza all’avanzamento. Mentre quelle a V profonda, garantisce l’autore (bontà sua), mantengono un comportamento accettabile e dignitoso.
Non è specificato quali carene siano state utilizzate per realizzare questo grafico di confronto: la cosiddetta “carena tonda” scelta come campione era quella della “Nina”, o quella della “Pinta” oppure quella della “Santa Maria”? E per le carene plananti è stata utilizzata la prestazione garantita dall’opera viva di “Brave Borderer” progettata da Peter Du Cane (e costruita da Vosper) oppure quella di un “ferro da stiro” qualsiasi?
Infine, le carene a V profonda. L’autore non dice che diedro hanno allo specchio di poppa né quanti sono e come sono posizionati i pattini longitudinali… né, tanto meno se il fondo è concavo, convesso o …. Insomma un grafico che non dice nulla di nulla. Però impressiona.
Si sa: non occorre essere intelligenti per avere molti soldi mentre van Gogh (che era un genio) è morto senza esser riuscito a vendere neppure uno di quei suoi quadri che oggi valgono miliardi. Ma, mi chiedo, tutti i ricchi sono così scemi da gradire queste ribollite di vecchie barche pantografate male? Nessuno di loro ha un guizzo di orgoglio? Non so: uno come l’avvocato Gianni Agnelli, quando si faceva una barca la voleva sì bella (e infatti la faceva interiorizzare da Pininfarina) ma soprattutto la pretendeva “unica”.
In questo senso ricordo con interesse una intervista fatta nell’estate scorsa a Vincenzo Moccia, direttore commerciale e marketing di Camuzzi Nautica. Gli fu chiesto: “Che cos’è secondo lei il lusso?” .
E’ l’esclusività, qualcosa non alla portata di tutti. Ma c’è lusso e lusso, nel senso che ci sono cose che, pur costose e quindi per molti irraggiungibili, non rappresentano il vero lusso.
Avendo lavorato da Dior (abiti di lusso) e da Bulgari (gioielli), Moccia sa di cosa parla. Ha ragione, per esempio, quando dice che non si può definire una “boutique del lusso”, un negozio che batte ottomila scontrini di cassa… Fuor di metafora, che non è lusso una barca fatta in serie o comunque di poco dissimile da altre già in giro per i mari: questo orribile “se non è zuppa è pan bagnato” che ingorga i porti di Montecarlo, di Porto Cervo e che viene a romper le scatole anche a Panarea.
Con gradevole ingenuità Carlo Galeazzi, intervistato di recente sul fenomeno delle imbarcazioni copiate e plagiate, ha sostenuto l’ipotesi che se il disegno originale è davvero “originale” allora le copie si autodenunciano da sole e il loro valore commerciale precipita. Garantisce Galeazzi, insomma, che il progettista deve essere uno “starter” e non un “runner”. E, come esempio concreto, cita le finestrone in fiancata studiate da Righini per gli yacht della Azimut, argomentando che nessuno ha avuto il coraggio di copiarle.
Non mi pare davvero che il ragionamento sia sbagliato anche se, ahinoi, l’esempio non è affatto inoppugnabile: molti potrebbero pensare (come me) che non era proprio il caso di copiare una cosa così brutta. Altri, invece, lo faranno senza batter ciglio: in fin dei conti quei finestroni li avevano (sullo specchio di poppa) anche gli antichi galeoni… E, infatti, qualcosa di analogo è già in circolazione. E non mi pare costi di meno del vero originale.
Un amico mi ha consolato:
Tranquillo, mi ha detto, adesso arrivano i “gigayacht”: andiamo decisamente oltre gli 80 metri. E le cose cambieranno.
Faccio fatica ad entusiasmarmi, lo ammetto: dopo la “Duetto” dell’Alfa Romeo e la Jaguar (quella di Diabolik, ovviamente) ho visto arrivare i SUV, non so se mi spiego…
Ma sono anche molto curioso (dovrebbe, dicono, esser la caratteristica basilare di chi fa il mio mestiere). Così mi sono informato ed è vero: in pentola sta bollendo qualcosa di decisamente nuovo.
Ve ne parlerò la prossima volta: tenetevi forte. Abbiamo a che fare, come già Laplace, di una “ipotesi di cui non c’era bisogno”: essere “runners ” anziché “starters”. Cioè il contrario della attuale modesta realtà.
Non è emozionante? Per me, sì. E, chissà?, magari anche per Carlo Galeazzi.
Articolo apparso nel fascicolo di settembre 2007 della rivista “Barche” e riprodotto per g.c. dell’autore. Note Legali
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