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Rivista Marittima: luglio 2012

02/11/2012/0 Commenti/in Rivista Marittima /da Giacomo Vitale

Rivista Marittima - luglio 20120001

La nave da battaglia ROMA a Trieste il 21 giugno 1942, all’inizio del suo trasferimento a Taranto ove si svolgevano le fasi finali dell’addestramento dell’equipaggio. Le aree pitturate in bianco sporco a prora e poppa furono riverniciate in grigio chiaro verso la fine dell’anno (Collezone F. Bagnasco via M.Brescia)

EDITORIALE

IL RITROVAMENTO DELLA CORAZZATA ROMA

Il recente ritrovamento della corazzata Roma al largo del Golfo dell’Asinara ci dovrebbe fare riflettere ancora una volta sul sacrifico perseguito dalla Marina attraverso il Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia, ammiraglio di Squadra Carlo Bergamini, il Comandante della nave, capitano di vascello Adone del Cima e l’equipaggio della corazzata Roma, durante i giorni peggiori della storia nazionale in cui abbiamo rischiato di sparire dalla carta geografica perdendo la nostra sovranità e indipendenza.

Per comprendere la tragedia dell’8 settembre che causò la perdita della nave e di 1.352 uomini tra equipaggio e comando complesso, i documenti d’archivio non sono sufficienti. Occorre sondare all’interno dei nostri animi, se è vero che esiste un «carattere della nazione», ossia uno dei fattori fondamentali del Potere Marittimo che, secondo l’ammiraglio e filosofo Alfred Tbeyet Mahan, hanno influenza sullo sviluppo di un Stato insieme ad altri come la posizione geografica, la conformazione fisica, l’estensione delle coste, l’entità della popolazione. Qual’è la principale caratteristica del nostro carattere nazionale che difficilmente cambia negli anni e ci viene riconosciuta all’estero?

Probabilmente l’individualismo che comporta dei risvolti positivi che ci vengono riconosciuti ell’estero come la creatività e la genialità. Tuttavia, l’individualismo spinto provoca anche difficoltà nel fare squadra per affrontare un problema comune che arriva dall’esterno.

Il nostro individualismo collettivo sedimentato nei secoli dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini può generare indisciplina, disordine e confusione. Unito ad una certa tendenza all’auto denigrazione e lesionismo, provoca l’instaurarsi nell’immaginario collettivo del luogo comune dell’8 settembre visto come la fuga dei generali in borghese, l’abbandono dei soldati sbandati e senza ordini rappresentato dal cinemetografico «tutti a casa».

Nulla di più falso di questo ormai radicato luogo comune per quanto riguarda il comportamento della flotta l’8 settembre 1943.

I vertici della Marina non abbandonarono le navi e non ci fu nessun tutti a casa. La maggior parte dei comandanti si attenne agli ordini del Re e chi decise di agire altrimenti lo fece perché non poteva fare diversamente o per partito preso, ma non perché non fossero chiari gli ordini e non per una forma di abbandono da parte dei vertici.

L’ammiraglio Raffaele De Courten, Ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina, prima di raggiungere il Re prendendo la strada per Pescara, lasciò all’ammiraglio Luigi Sansonetti, sottocapo di Stato Maggiore, direttive inequivocabili che quest’ultimo diramò via radio dalla sede di SUPERMARINA a tutte le navi sparse in Mediterraneo e negli oceani, fino a quando la sede di Santa Rosa non fu occupata dai Tedeschi.

Si trattava dell’esplicitazione delle clausole dell’armistizio e delle istruzioni di dettaglio elaborate il 4 settembre 1943 dal commodoro Roger Dick, capo di Stato Maggiore dell’ammiraglio Cunningbem; sui porti alleati da raggiungere con le modalità relative agli assetti delle armi, le bandiere e distintivi ottici da mostrare durante l’incontro tra le navi italiane e quelle alleate, chiamato «promemoria Dick». Gli ordini furono compresi addirittura dalla nave coloniale Eritrea che navigava in prossimità di Singapore e dal sommergibile Cagni in Oceano Indiano.

È ovvio che soltanto i comandanti delle navi mercantili e militari in grado di muovere poterono rispettare gli ordini. I marinai a terra, che erano la maggior parte, seguirono il comportamento e il destino delle altre Forze Armate. Le valutazioni sull’opportunità di attenersi o meno all’ordine del Re sul rispetto delle clausole dell’armistizio hanno generato una sanguinosa guerra civile e infinite polemiche ancora in atto. Sulle scelte individuali degli uomini di allora nessuna affermazione è più saggia di quella dell’ammiraglio Sansonetti del 13 settembre durante la riunione degli ufficiali al Ministero della Marina a Roma:

«Nell’apprezzare ciò che giova e ciò che non giova all’interesse del Paese possono esservi divergenze di apprezzamento. Ciascuno è libero, nella propria coscienza, di giudicare come crede. Ci sono esempi nella storia d’Italia, nei quali ferventi patrioti hanno visto il bene della Patria in direzione opposta: gli uni e gli altri in perfetta buona fede. Soltanto gli avvenimenti posteriori hanno stabilito chi avesse ragione: ma gli uni e gli altri sono responsabili ( .. .). Lo stesso De Courten, quando si accorse che la flotta era destinata a essere liquidata come bottino di guerra, amareggiato e deluso, il 20 dicembre 1946 rassegnò le dimissioni scrivendo nelle sue memorie:

«Due traguardi avevo posto alla mia azione: la conservazione all’Italia della Marina che essa possedeva al termine della durissima prova iniziata nel 1940, la negoziazione dei compensi alle Marine che avevano avuto perdite (. .. ). Non ero riuscito a raggiungere nessuno dei due traguardi (. . .). Il principio del bottino di guerra replicamente proclamato immorale e ingiusto, al di là di tutte le sottigliezze giuridiche, era stato codificato nelle sue conseguenze e affermato nelle clausole del Trattato di pace (. .. ). Era indispensabile che, di fronte agli Alleati manchevoli, di fronte alla Nazione delusa, di fronte alla Marina umiliata, io compissi il gesto definitivo di accomiatarmi dall’Istituzione (.. .). Tuttavia, il Ministro ricordando il sacrificio dell’ammiraglio Bergamini, aggiunse: «Non è esagerato affermare che, se lo Stato italiano ha potuto, in quel critico periodo, sussistere nella sua entità politica, il più sostanziale contributo a tale realizzazione storica di importanza decisiva è stato dato dal disciplinato e saldo atteggiamento della Marina».

In effetti, dopo l’occupazione della Sicilia i successivi sbarchi lungo la penisola dovevano avvenire con il minimo numero di mezzi e uomini necessari al solo scopo di fissare le forze tedesche il più lontano possibile dal Nord della Francia e dal fronte orientale in modo da indebolire i Tedeschi.

Ma per non rischiare di trasformare lo sbarco a Salerno in una disfatta occorreva non solo giungere nell’armistizio, ma evitare che la potente flotta italiana, ancora la quarta del mondo, finisse sotto il controllo dei Tedeschi, possibilmente senza distruggerla e senza portarla ad autoaffondarsi. La flotta era infatti l’unico strumento militare italiano che avesse qualche utilità, sia dal punto di vista operativo, sia al termine della guerra, come bottino da suddividere tra i vincitori, compresi i Francesi di De Gaulle.

Grazie al sacrificio di Carlo Bergamini e di molti marinai ignari di ciò che stava accadendo sopra le loro teste, l’Italia salvò la propria indipendenza e unità nazionale. Quanti cittadini italiani ne sono consapevoli? Il sacrario della corazzata Roma dovrebbe farci riflettere sul riconoscimento che dobbiamo ancora a quegli uomini scomparsi negli abissi.

Patrizio Rapalino

 

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