La mia prima stagione di pilota offshore iniziò con la V.B.V.
di Antonio Soccol
La prima “vera” trottola che ho messo in moto in campo nautico agonistico risale all’inverno del 1968/’69 e tendeva a realizzare una barca da corsa offshore con la quale io potessi partecipare alle varie gare dell’epoca, senza dovermene stare per ore e ore in una sala stampa ad aspettare l’arrivo dei vari concorrenti e raccogliere poi le loro- spesso non veritiere dichiarazioni sull’andamento di un evento che nessuno poteva aver visto essendosi sviluppato in mare aperto, lontano dagli occhi di tutti. Volevo correre e correre con una barca di Renato “Sonny” Levi: dopo aver visto “Surfury” in azione nella Cowes-Torquay del 1965, non era possibile avere altro sogno.
Il primo incontro personale con Levi avvenne a Les Embiez nel 1966. Lui con una bussola in mano con la quale voleva controllare la fedeltà di quella installata su “Ultima Volta” di Gianni Agnelli e io con quattro macchine fotografiche appese al collo.Ci eravamo già scambiati molte lettere (le mie erano dei veri e propri interrogatori di terzo grado) ma parlarsi di persona era tutt’altra cosa… Ci chiacchierammo a lungo e nacque una amicizia che dura da oltre quarantaerotti anni.
Levi ebbe una pazienza infinita con me e rispose con calma a centinaia di domande ma, ciononostante, sentivo che dovevo fare di più per poter raccontare ai miei lettori quello che succedeva prima, durante e dopo quelle manifestazioni che stavano determinando lo sviluppo della nautica da diporto. Insomma e per farla breve: dovevo trovar modo di diventare anch’io pilota offshore.
Allora non c’erano sponsor né team. Correvano i cantieri con barche appositamente preparate (Navaltecnica, Italcraft, Mochi, Gagliotta) oppure privati di elevate disponibilità economiche (l’avvocato Gianni Agnelli, l’editore inglese Max Aitken, il palazzinaro romano Vincenzo Balestrieri eccetera). Difficile “imbucarsi” in una di quelle barche dove l’equipaggio –oltre all’armatore- era sempre dato da meccanici e operai super specializzati. Impossibile, per le mie economie, pensare di costruirne una, di barca, tutta per me. Ma la sorte mi aiutò.
Andavo, in quel tempo, spessissimo a cena, a Milano dove abitavo, nel ristorante “da Lino” di proprietà dell’amico Guido Buriassi, gran appassionato di barche (e di aerei) che aveva, quasi ogni sera, il piacere di avere come clienti nel suo locale una larga maggioranza degli operatori nautici milanesi di quel tempo.
Erano habitué di quel posto, personaggi come Luigino Prosperi (direttore commerciale della Aifo-Fiat), Giancarlo Bassi (della CVM), Livio Macchia (direttore commerciale di Perkins Italia), Antonio De Cristofano (amministratore delegato della Motomar – Johnson Italia), l’indimenticabile Ambrogio Fogar (che non sapeva ancora andare a vela) e tanti altri.
Io ci avevo portato “ragazzi” come Giampiero Baglietto (cantieri Baglietto e presidente dell’Ucina), come Salvatore Gagliotta (cantieri Gagliotta), come Nino Petrone (cantiere Sapri), come Luciano Mochi Zamperoli (cantiere Mochi), come Nani Sartorio (cantiere Iag Nautica, uno che sarebbe, poi, diventato anche mio cognato…); progettisti come Renato “Sonny” Levi, come Franco Harrauer, come Paolo Caliari; giornalisti come Sergio Scuderi, come Carlo Marincovich, come Fabrizio Ricci, come Claudio Nobis; navigatori solitari come Alex Carozzo e “veri famosissimi” come il comandante Jacques
Yves Cousteau e la “sua eminenza grigia” il caro Sergio Bertino: si mangiava benissimo, si beveva meglio e… si parlava di mare e di barche sino a notte fonda. Spesso si disegnavano schizzi di scafi immaginari (o di altri sogni) sui bianchi tovaglioli di quel locale.
Sonny Levi, Franco Harrauer, Salvatore Gagliotta e Carlo Marincovich
Una sera, ricordo: era d’inverno e faceva freddo, Livio Macchia, davanti ad un piatto di fagioli cannellini cotti al fiasco e conditi con autentico caviale iraniano (erano davvero altri tempi… per il caviale, intendo), disse che aveva disponibili un paio di diesel della Perkins per tentare la via dell’offshore ma che non aveva la barca dove montarli. Io sapevo che il mio amico Nino Petrone, titolare del cantiere Sapri di Salerno, stava costruendo una imbarcazione su progetto di Renato “Sonny” Levi. Una barca da 27’ della linea “delta”, molto ispirata nelle linee d’acqua a quel meraviglioso “Delta 28’” che, sempre Levi, aveva progettato un paio di anni prima per i fratelli Gardner e che correva con ottimi risultati in Gran Bretagna e talvolta anche in Mediterraneo
Il “Sagitta Special”, questo il nome di progetto della barca di Nino Petrone, doveva avere la spinta di un motore Vulcano della BPM da 8 litri di cilindrata e circa 400/500 cv (va a sapere…). La notte stessa, incurante del disturbo che gli avrei potuto creare, telefonai a Petrone: “Si può sostituire quel Bpm con un paio di Perkins? Ci stanno?” gli chiesi in affanno. Nino, invece che mandarmi sulla forca come sarebbe stato suo giusto diritto, cercò di ragionare, gasato anche lui dall’idea. “Secondo me, sì”, sentenziò e aggiunse: “Ma bisogna sentire “Sonny” Levi. Se lui è d’accordo, va bene.” E poi, dopo una pausa: “ Ma se lui dice di no, è no.” Una sentenza.
Non me la sentii di svegliare nel cuore della notte il mio amico progettista e, a fatica, riuscii a resistere sino alle prime ore del mattino: sapevo che si alzava sempre verso le 5 per disegnare in santa pace prima che il suo telefono iniziasse a squillare con chiamate che arrivavano da ogni parte del mondo: “Devo controllare i disegni e gli ingombri ma direi di sì….Camminerà un bel po’ meno, però”, disse “Sonny”. “Non importa: basterà!”, argomentai confuso. E mi misi ad aspettare il responso finale come nemmeno, un decennio prima, il giorno del verdetto degli esami di maturità: con ansia e speranza mescolate in un cocktail di adrenalina…
Quando, poche ore dopo, da Lavinio in provincia di Roma dove allora abitava, Levi mi diede il suo ok chiamai subito Macchia e lo invitai a cena: sempre da Guido Buriassi. “Ma ci siamo visti ieri sera…”, disse, sorpreso, il direttore commerciale della Perkins. “Stasera offro io e si pasteggia a Barolo d’annata”, dissi. Accettò. E arrivò con la sua nuova Ferrari color rosso mattone, stupenda. Aveva, ricordo, anche una Mini Cooper dello stesso identico colore…
Guido ci preparò una cena da guinness in cui primeggiava una ricetta eccezionale: scaglie di filetto (di manzo) cotte al piatto, una goccia di olio (extravergine, ça va sans dire) d’oliva e, sopra, abbondante spruzzata di tartufo. Ma, in contropartita, il grande chef pretese di sedersi al nostro tavolo perché aveva capito che qualcosa di speciale stava succedendo e non voleva assolutamente perderselo. Parlammo fitto fitto fino a notte tarda, di bottiglie di Barolo se ne andarono più di una e alla fine la barca si chiamò “Barolodelta”. Con grandissima eleganza Nino Petrone rinunciò subito al suo ruolo di prima guida di quella barca per lasciar posto a Macchia (e questo ci poteva stare) e a me (e gliene sono ancora grato).
Non ci crederete, ma la barca finì in ritardo, i motori anche, le eliche pure. Livio riuscì a fare, a Salerno, una brevissima prova motori alla “scappa e fuggi” (una mezz’oretta) e lo scafo poi arrivò dentro un buffo camion a Viareggio, la sera del 19 luglio 1969, appena poche ore prima che si chiudessero le verifiche tecniche della V-B-V in programma il giorno dopo.
Non riuscimmo nemmeno a fare un giretto di prova quel sabato. La varammo direttamente la domenica mattina e solo pochi minuti prima del via presi possesso di quel posto di pilota (sarebbe più corretto dire “co-pilota”) che avevo tanto sognato.
Il volante, simbolo del comando, era a sinistra nel posto riservato a Livio; i comandi del gas e dei flaps stavano nella consolle centrale. Ciascuno dei piloti aveva davanti una bella bussola abbastanza frenata per non fare tre rotazioni ad ogni impatto d’onda.
La rotta, che per quella prima volta avevo tracciato con esasperante precisione sulle carte nautiche e con tanto di parallele, prevedeva la partenza con direzione da sud a nord lungo il litorale della Versilia, giro dell’isola del Tino, passaggio di ritorno davanti a Viareggio, quindi prua su Bastia, giro della barca della Giuria piazzata davanti al porticciolo corso, rientro “in patria” passando a slalom fra Capraia e Gorgona e traguardo finale al Club Nautico di Viareggio: erano – mi pare di ricordare- 210 o 220 miglia marine.
In partenza: una quindicina di barche fra cui Don Aronow con il suo nuovo “The Cigarette” da 32’ che prometteva sfracelli con i nuovissimi Mercruiser da 475 cv ciascuno, Vincenzo Balestrieri – neo campione mondiale e alla guida di un velocissimo Cary da 28’- e Francesco Cosentino che correva su uno scafo Bertram da 31’. Figuravano poi Nicola Chiatante con “Freccia d’Argento”, una barca in alluminio della Siai Ambrosiani; Attilio Petroni su “Volpe d’argento” spinta da due Vulcano della Bpm.
Uno scafo dei cantieri Cosca con tre fuoribordo Mercury, i velocissimi “Budda” di Salvatore Gagliotta & Gennaro Russo, il “Mosquito” del tedesco Oskar Trost e il “Roar” dei cantieri del Garda che era un cabinato da diporto-veloce che montava una coppia di Daf da 140 cv ed era affidato alla guida del suo progettista e costruttore GB Frare. Fra i tanti, c’eravamo anche noi: Livio ed io, piloti assolutamente esordienti con una barca, praticamente, alla sua prima uscita. Due belle incognite, nella stessa equazione.
Il mare era decisamente calmo: una tavola o “forza olio”, come si diceva allora. Al via, uno non capisce praticamente niente: ci sono solo violenti schizzi d’acqua e onde ovunque. Ma in questi casi c’è una sola e unica cosa da fare: mettere giù le manette, se si può bloccarle con un elastico e andare. E così, infatti, facciamo. Ma, non essendo disponibile l’elastico (mancanza d’esperienza), carichiamo su quelle monoleve, con una mano ciascuno, il peso dei nostri corpi e non lo stacchiamo per un bel po’. E la barca va che è una favola.
I “mostri” della classe OP1 con i loro potentissimi motori a benzina (ciascuno 3,3 volte più potente dei nostri dieselini) spariscono in fretta a prua e dopo un po’ si naviga su un mare normale. A bordo non c’è un contamiglia ma, quando arriviamo al Tino, calcolo che la nostra velocità non sia inferiore ai 37 nodi. Niente male, proprio niente male per niente. Più o meno la stessa velocità – calcolata sempre sul tempo impiegato- la registro anche al passaggio davanti a Viareggio.
Si tratta ora di virare a ovest e traversare sino alla Corsica sperando di incocciare giusta giusta Bastia: chissà com’è? Mai vista prima, nemmeno in cartolina.
Livio, come affrontiamo il mare aperto, mi sorride e poi si fa il segno della croce: mi viene in mente che il mio dolcissimo amico Eugenio Monti, il re assoluto del bob (titoli mondiali e olimpici) mi aveva raccontato come avesse tolto dall’equipaggio del suo bob a quattro un atleta che aveva quell’abitudine: “Se lo fai perché hai paura non devi correre, se lo fai per scaramanzia non mi piace e se è proprio per fede, beh, questa non è una chiesa”. Ma io, che condivid(ev)o in pieno il Monti pensiero, mica posso buttare Livio in mare: la Giuria mi squalificherebbe visto che il regolamento impone due piloti con licenza agonistica a bordo di ogni barca in gara…
Il mare si mantiene calmissimo: c’è solo un po’ di foschia che non ci impedisce però di notare, molto lontana, una petroliera probabilmente in rotta verso Genova. Livio dà subito una tacca di flaps. Lo guardo storto: “Meglio esser prudenti”, brontola dentro al casco. Brontolo anch’io. Le onde di quella petroliera si riveleranno, molti minuti dopo, due ridicole gobbe d’acqua che fanno ridere. Per fortuna Livio toglie subito la tacca di flaps e si ritorna al top della velocità. In tre ore circa siamo a Bastia e la imbrocchiamo alla perfezione. La virata attorno alla barca della Giuria è un piccolo capolavoro. Il ritorno è monotono, semplice. Dopo poco più di sei ore tagliamo il traguardo. La nostra media finale risulta essere di 36,10 nodi. Quella del vincitore, l’americano Don Aronow, di 64 nodi: minchia!, quasi il doppio. Ma nessuna barca meno “potente” della nostra ci è davanti mentre, dietro, c’è qualcuno che ha qualche centinaio di cavalli in più e siamo rigorosamente primi fra tutti i diesel in corsa. Insomma, un buon esordio ma soprattutto quel giorno nessuno mi verrà a raccontare di mare forza 10 e di onde degne di Capo Horn. E potrò scrivere articoli più seri.
La gara successiva è in Francia, il 3 di agosto, a Les Embiez, deliziosa isola acquistata nel 1958, all’insegna del motto: “Quoi de mieux qu’une île pour rêver ?”, da Paul Ricard, il famoso re del “pastis”. Diventano nomi famigliari Bandol, Bendor e il piccolo porto di pescatori di Brusc (a 18 km da Tolone e a 70 km da Marsiglia) da dove parte il traghetto che raggiunge l’isola dei sogni. E’, questa, tutta terra di vino (bianco e rosè) buonissimo e mi chiedo se sia corretto andare a fare una gara offshore con una barca che si chiama “Barolodelta”. Sull’isola c’è un Istituto di ricerche oceanografiche diretto da un uomo che io stimo moltissimo: Alain Bombard.
In Italia, oggi, Bombard (morto il 19 luglio 2005 ) non lo conosce nessuno mentre tutti coloro che per un motivo qualsiasi vanno per mare (su navi mercantili, da crociera, da guerra, su traghetti, su barche da diporto, su gommoncini da spiaggia, insomma tutti, ma proprio tutti) dovrebbero essergli riconoscenti e…conoscere perfettamente il suo libro “Naufrago volontario” (si trova in circolazione perché, per fortuna, la Magenes Editoriale, lo ha ristampato di recente). Perché questo libro è fondamentale per la gente che va per mare? Ne ho già parlato su queste pagine: Bombard, rendendosi “naufrago volontario” al largo di Gibilterra, nel 1952, quando aveva 28 anni, ha traversato tutto l’Atlantico alla deriva su un piccolo gommone spinto dal vento e dalle correnti e dimostrato che, senza viveri e senza alcun aiuto esterno, il mare è così ricco che consente, a chi vi casca dentro, di sopravvivere a lungo, lunghissimo… Di salvarsi, insomma. Mica poco, no?
La gara, il Trofeo “Dauphine d’or”, che sino all’anno precedente portava da Les Embiez a Cannes, ora prevedeva il ritorno diretto all’isolotto di partenza (in totale 195 miglia) e si preannunciava come un bis di quella di Viareggio: mare calmissimo. Al via siamo in nove: i soliti Don Aronow, Vincenzo Balestrieri, Francesco Cosentino, Attilio Petroni, qualche francese locale : Orio, Bellet, Guyard. Poi una barca dei cantieri Cosca con tre motori fuoribordo e infine noi, gli eretici del vino rosso piemontese in terra di “bianchi & rosè” francesi. Se ci va bene, calcolo – prima di partire e guardando le potenze della “cavalleria” altrui- arriviamo buoni ultimi.
E così infatti finisce: settimi assoluti, grazie a due ritiri. Ma con una media modesta, mentre il vincitore (Aronow) aveva filato ben 61 nodi. Perché? Perché un iniettore del Perkins di sinistra faceva capricci, sputava nafta a tutto spiano e questa colava sui motori ardenti e sembrava sempre un principio di incendio… Lo so, lo so: la nafta non brucia ma quando vedi fumo uscire dalla sala macchine non stai tanto a ragionar di fino e comunque cerchi di intervenire.
E io mi davo da fare con la barca alla deriva, ma intanto sottobordo passavano molti scafi a vela con, in coperta, stupende ragazze in topless: “Alez, les italiens!” sussurravano carogne quelle autentiche distrazioni e così la chiave del 13 mi finiva- chissà perché- in sentina e per recuperarla erano minuti preziosi che volavano… Arrivammo in tempo per vincere la coppa prevista per la prima barca diesel. Meglio che niente.
La gara successiva era la magica “Cowes-Torquay” che si correva il 30 agosto. Macchia decise che, per questa prova, il suo secondo pilota sarebbe stato un importante ingegnere della Perkins cui lui “non” poteva dire di no… Fu così che il nostro rapporto si ruppe e, poiché io sono peggio di un elefante, non ho ancora digerito quello sgarro.
Per dovere di cronaca, ricorderò che “Barolodelta” concluse la gara inglese oltre il trentesimo posto su 53 partenti. Mi hanno detto che c’era mare formato ma il solito Aronow tenne la media finale di 57 nodi abbondanti. Formato, quanto? Ah, saperlo! Io, quella volta, non c’ero. (segue)
Questo articolo è apparso nella rivista Barche di dicembre 2009 e viene qui riportato per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Caro amico,
se mi permetti di chiamarti ancora così, Antonio, ti devo riconoscenza per la tua amicizia di quei tempi e credimi una fitta al cuore quando ho saputo che te ne sei andato!
Credimi, sei sempre stato un amico per me ed anche se ingannevoli incomprensioni giovanili ci hanno diviso, il mio rispetto e la mia ammirazione per te sono rimasti invariati.
Livio