La barca non e’ un auto… (XVI puntata) – Riflessioni fra antica sapienza e moderna tecnologia
di Antonio Soccol
In questa puntata di questa nostra ormai lunghissima chiacchierata sulle differenze fra una barca e una automobile, mi ero ripromesso di sviluppare ulteriormente le mie elucubrazioni sulla tecnica di recupero delle imbarcazioni storiche anche alla luce di alcune straordinarie scoperte fatte da quella furia scatenata di Giacomo Vitale, mio “consigliere” personale in questa materia. E, a questo scopo, stavo già mettendo in fila indiana quelle formichine che si chiamano parole quando mi è pervenuta la lettera di Alessandro Spagnolo, un “recente” lettore della nostra rivista che mi stimola a fare (e a condividere) alcune riflessioni sulla complessa materia. Il tutto per avere (lui) altri elementi su cui riflettere.
Ecco cosa mi ha scritto il bravo Alessandro:
Gentile Soccol,
sto seguendo con interesse la serie di articoli sul mercato dell’usato anche se compro “Barche” solo da alcuni mesi. Quanto ho letto mi ha stimolato una riflessione che vorrei condividere con te. Al di là degli aspetti puramente commerciali condizionati molto anche dalle inserzioni internet e dai rischi che tali acquisti, soprattutto nella nautica, si possono correre, ti chiedo: acquistare una barca di un cantiere anche di nome, magari di dieci anni, garantisce la stessa qualità costruttiva della medesima barca costruita oggi?
Tralasciando le barche d’epoca e uniche per stile e modalità costruttive (pensiamo solo ai maestri d’ascia ormai spariti), la tecnologia ad esempio per l’utilizzo e gli elementi costruttivi degli scafi in vetroresina non è oggi diversa e migliore di quanto fosse stata, appunto, dieci anni fa?
Quanto una barca di oggi è tecnologicamente più avanzata e “sicura” della stessa barca fatta anni prima? O vale semplicemente… “He! non ci sono più le barche di una volta“?
Ad esempio: una delle barche più commercializzate sull’usato, anche perchè molto venduta all’epoca, il DC9 (oppure il DC10) dei cantieri Della pasqua, quanto è tecnologicamente più avanzata oggi di allora? o si tende oggi alla riduzione dei costi e quindi il prodotto si depaupera in termini costruttivi?
E’ vero che la barca non è un’automobile ma un’auto di dieci anni fa, al di là del peso della carrozzeria, dal punto di vista tecnologico e di sicurezza fa ridere rispetto ad una di oggi.
Qualsiasi strumento tecnologico oggi ha un contenuto molto più evoluto ed un prezzo nettamente più basso dello stesso strumento fatto anni indietro.
Le barche che regola seguono, se regola c’è?
Ti saluto caramente,
Alessandro Spagnolo
La domanda di Alessandro è di interesse generale e investe in pieno tutto il nostro argomento: trovo quindi più corretto rispondere e “riflettere” su questo spazio che non in quello, inesorabilmente più limitato, della rubrica delle lettere.
Vorrei, prima di tutto, raccontare due episodi.
Vivo a Milano dal 1961. Sin dal primo giorno in cui arrivai nella città lombarda rimasi stupito e anche molto affascinato da un dettaglio: tutti (ma proprio “tutti tutti”) gli orologi stradali segnavano sempre l’ora giusta. Perfettamente. Al nanosecondo, si direbbe oggi. E, quando scattava l’ora legale, tutti contemporaneamente, alle due in punto della notte, si aggiornavano. Una sorta di mini miracolo per me che venivo da Venezia dove ogni orologio stradale segna(va) l’ora che voleva.
“Il merito”- mi ha spiegato gentilmente un esperto-“ è che sono tutti collegati elettricamente ad una unica centrale che trasmette l’ora ufficiale dell’Europa da Bruxelles”. Geniale e estremamente efficiente.
Sono passati quarantasette anni e gli orologi stradali di Milano continuano indefessi a segnare l’ora esatta. Tutti. Tutti, tranne uno che si trova al civico 25 di via Montenapoleone (the shopping street in the world! cioè la via più importante d’Italia) e che è “personale” di quella ditta che, unica al mondo, ha avuto modo e maniera di far andare due dei suoi prodotti sulla Luna al polso di Edwin E. Aldrin Jr. e di Neil Armstrong. Quell’orologio, da una mezza dozzina di anni, è sempre “avanti” rispetto alla “vera ora” di almeno quattro/cinque minuti. Stupito (e rompiglioni, come sono) ho scritto al negozio titolare di quella “padella” e ho sottolineato, con un leggero spirito ironico, che non mi sembrava il caso di avere una “pluralità d’informazione” anche in una materia così sacra (specie a Milano) come il tempo. Mi è stato risposto (e conservo ancora la lettera) che avevo ragione, che stavano tentando di coordinare il computer che regolava l’orologio con l’ora ufficiale e che speravano quanto prima di sistemare il problema. Sono passati anni e non è successo nulla di nulla: anche stamattina quell’orologio era avanti di 5 minuti secchi.
Altra storia: dal più famoso orologio del mondo passiamo al più importante quotidiano italiano. Circa cinque anni or sono mi sono scocciato di leggere sul “Corriere della Sera” testi di Biagi, Magris, Pivano e di molti altri nobili autori, massacrati da “orrori” di ortografia e in particolare da “a capi” di parole che urlavano vendetta. Così, sempre rompiglioni, ho scritto alla redazione chiedendo se non si poteva porre termine a questo scempio della lingua italiana visto che, nei tempi andati (in cui anch’io avevo collaborato al famoso giornale) con le linotype e i correttori di bozze, questo non accadeva. Mi hanno gentilmente risposto con una e-mail (che naturalmente conservo): “Stiamo cercando di insegnare al computer la nostra lingua: speriamo di farlo in fretta”, diceva quella redazione. Apro oggi, quasi duemila giorni dopo, il “Corriere della sera” e, in un solo articolo a firma (nobile altroché) di Gian Antonio Stella, trovo questi “a capo”: “nella clo- aca”; “indebolire la co- alizione”; “i sentimenti non si-ano”.
Di andare “a capo” con l’ano era errore che i linotipisti maliziosamente facevano di proposito per scherzare i correttori di bozze ma credevo fosse passato in disuso… e invece la moderna tecnologia lo ha rilanciato.
Ma tant’è! Oggi si fa tutto con i computer: prendere o lasciare. Ovviamente tocca prendere perché non esiste alternativa. Ma la vera domanda è: possiamo fidarci? Tutto quello che è “nuovo”, “moderno”, “altamente tecnologico” è più sicuro?
Un orologio che va avanti di qualche minuto non ti fa perdere il treno, un “a capo” sbagliato può anche non guastarti la digestione, d’accordo. Ma se il nostro beneamato computer noi lo mettiamo a progettar barche saprà fare il suo lavoro in modo perfetto oppure inserirà qualche errore?
Oggi la larga maggioranza della produzione (e quindi anche quella delle imbarcazioni) viene “lavorata” con i computer. “Per progettare, non lo userò mai”- mi ha detto più di venti anni or sono Renato “Sonny” Levi e mi ha spiegato:
“Se nella fase iniziale tu per stanchezza, distrazione o altro inserisci nel tuo pc un elemento “non corretto”, te lo “trascini” per tutta la progettazione e difficilmente lo scopri prima che… la barca sia in acqua. Al contrario la “prova del nove” non sbaglia mai…”.
Assurdo si potrà pensare. Forse. Più probabilmente, semplice gap generazionale.
Ma Alessandro Spagnolo vuol sapere da me se una barca di dieci anni or sono è sicura quanto una prodotta oggi oppure se, come nelle automobili, non vi sia stato un superlativo salto di qualità al punto da rendere ridicola la vecchia produzione.
Ovviamente qui si parla solo di barche a motore. In questo tipo di scafi gli elementi che compongono la sicurezza sono sostanzialmente tre: la carena, il materiale di costruzione e la motoristica nella sua globalità.
Per quanto concerne le carene, negli ultimi dieci anni si sono fatti spettacolari passi indietro: personalmente non cambierei l’opera viva della mia barca (che risale al 1977) con quella di nessun scafo più recente. E’ prevalso infatti il concetto che la barca non è un natante ma una “casa galleggiante” e quindi che a nessuno può interessare come naviga. Men che meno se fuori dal porto c’è mare formato. Il fatto che vi possano essere clienti interessati persino a navigare è statisticamente ininfluente e quindi non sposta l’attenzione dei costruttori.
Il materiale di costruzione è ormai per tutti la vetroresina che ha il suo cancro nella osmosi, parola che scientificamente significa: “fenomeno di diffusione tra due liquidi miscibili attraverso membrane semimpermeabili”. Se una barca in plastica è affetta da osmosi l’unica cosa che conviene fare è buttarla. Sì, no, lo so: si può anche cercare di circoscrivere la magagna e fare un “riportino” di materiale sano ma, prima o poi, il fenomeno riapparirà in forma virulenta altrove e quindi il gioco non vale la candela. Il guaio è che l’osmosi non nasce dall’impiego di cattivo materiale quanto da una costruzione realizzata in un ambiente non idoneo.
Circa dieci mesi or sono riportavo proprio in queste colonne la scoperta fatta nell’entroterra di Napoli di un capannone dove si producono scocche di imbarcazioni per conto di un noto cantiere partenopeo. La particolarità di questa notizia era che il cosidetto “cantiere” era un capannone NON climatizzato e soprattutto senza alcun controllo dell’umidità. Ho scritto allora: “In quella zona, come si sa, l’umidità dell’aria ha un valore medio annuo dell’ 83% ed in alcuni giorni si arriva anche al 95%. Quando la resina catalizza, se l’umidità relativa dell’aria è elevata e al di sopra di certi valori, questa si intrappola nel tessuto di vetroresina e, dopo qualche anno, iniziano le famose bolle che creano l’osmosi.”
Ora il punto da valutare è questo: dove vengono prodotte le barche che oggi sono sul mercato? I cantieri più noti hanno smesso di farsele fare altrove e adesso, quasi tutti, producono in proprio con situazioni di alto controllo tecnico. Ma tanti altri produttori si rivolgono ancora a fornitori esterni che, spesso, costano meno proprio perché i loro “laboratori” non sono a norma di legge (e molto spesso non lo sono neppure gli operai…). Ovviamente nessun cantiere dichiara ufficialmente queste cose e quindi è molto difficile distinguere i bravi dai meno bravi, così come, peraltro, non necessariamente tutti i “fornitori esterni” sono dei senzadio.
Anzi, ve ne sono alcuni di bravissimi davvero. Insomma, la materia è complessa specie se si aggiunge che noi dovremmo sapere dove e come è stata costruita la scocca di una barca, non ieri, ma ben dieci anni or sono… E chi ce lo dice? Il prestigio del nome? Ma se persino i mitici cantieri Riva, quando iniziarono a introdurre nel loro catalogo le prime barche in vetroresina, se le facevano stampare “fuori”… La serietà del costruttore? O, magari, la dialettica del rivenditore che vuol sbolognarci una caravella di antico lignaggio? Chi oggi è leader del mercato ma dieci anni fa non lo era, come e dove costruiva? Sono domande che non hanno risposta. Sono dati che non valgono in generale e spesso neppure nel “particulare”. E quindi io non so dare una valutazione seria. Per fare confronti probanti si dovrebbe ricostruire con assoluta certezza la “storia” di ogni singolo modello di barca esistente: semplicemente impossibile perché talvolta – per i modelli più richiesti dal mercato- gli “stampatori esterni” erano/sono più di uno.
Qui, insomma, appare in tutta la sua evidenza la profonda differenza che c’è fra la barca e l’automobile … fra una produzione comunque “artigianale” e una fortissimamente industrializzata e robotizzata.
Nel terzo elemento, quello che coinvolge la motorizzazione nella sua globalità, ci sono stati degli indubbi progressi. Quasi tutti i motori o i gruppi entrofuoribordo sono oggi più affidabili di un tempo. Sì, un paio aziende di prestigio mondiale hanno, purtroppo, introdotto alcuni modelli molto “fragili” che hanno rovinato non poche vacanze e crociere ma nella larga maggioranza la qualità è stata premiata. E, a parità di cilindrata, molte potenze sono anche aumentate. In sintesi, oggi una barca, per quanto concerne la motorizzazione, è più affidabile di una di dieci anni or sono.
Morale? Su tre elementi, uno è negativo, uno assolutamente dubbio e uno è positivo. Al totocalcio sarebbe una tripla: “1, X, 2” mentre Alessandro Manzoni rimanderebbe ai posteri “l’ardua sentenza”. Sono più bravo in letteratura che nei giochi a rischio e quindi mi associo al nostro Don Lisander nazionale anche se mi rendo conto di non aver accontentato del tutto quell’altro Alessandro, nostro lettore.
Ma, alla fin fine, lui mi chiedeva di riflettere e io gliene ho dato gli elementi, no? Spero servano anche agli altri lettori.
(segue)
Articolo pubblicato dalla rivista “Barche” nel fascicolo di aprile 2008 e riprodotto per g.c. dell’autore
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